
Varco il portone principale di palazzo Vizzani-Lambertini-Sanguinetti, sede dello spazio non-profit bolognese Alchemilla, e vengo subito accolto, nella corte interna, da una presenza scultorea inattesa: l’essenza formale di un camino, cristallizzato in resina epossidica azzurra e posto, capovolto, in asse con la porta d’accesso e con la fuga prospettica del passaggio voltato che, dal lato opposto, conduce ad un ulteriore cortile (Somewhere). I piedi del camino – di dimensioni modeste, decorato unicamente dalla valva di una conchiglia – sono rivolti verso il cielo, come le estremità di un diapason in risonanza con una qualche frequenza inudibile, e fungono visivamente da completamento specchiato dell’arco retrostante. L’opera è la prima traccia impressa negli ambienti interni ed esterni del palazzo dalla mostra Another Chance dell’artista italo-tedesco Friedrich Andreoni (Pesaro, 1995), esito dei due mesi che vi ha trascorso in residenza. Già da questo primo incontro ravvicinato si coglie l’attitudine mediante cui l’artista, in tandem con la curatrice Giulia Giacomelli, ha deciso di porsi in relazione con il palazzo e la sua storia, che fin dal titolo Andreoni auspica di aprire ad “altre possibilità”, fruitive, interpretative, esperienziali. A orientare la pratica dell’artista è stata la volontà di riattivare memorie sopite attraverso lo scandaglio nel vissuto che si è intriso nelle pareti, negli arredi e nelle decorazioni del palazzo nel corso dei secoli, cui ha attinto mediante carotaggi mirati. Il progetto espositivo sconfina (ed è la prima volta per una mostra di fine residenza) dai limiti circoscritti dell’ala degli appartamenti del piano nobile che furono abitati dal futuro papa Benedetto XIV e che ora è adibita a sede della realtà guidata da Camilla Sanguinetti, per dialogare anche con gli spazi limitrofi. Presa la via dello scalone che conduce al primo piano approfitto di una finestra rivolta verso la corte per gettare uno sguardo obliquo su quel dispositivo prospettico, ora divenuto una macchia azzurra in cui si riflette il cielo terso di questa mattina di primavera. Approdando al primo piano, vengo accolto, come di consueto, da un affresco rappresentante l’Accecamento di Polifemo, realizzato nel 1570 da Lorenzo Sabatini, una delle tante maestranze che nei secoli si sono alternate nella decorazione del palazzo. L’affresco, traslato in tempi storici dalla sua originaria collocazione interna agli appartamenti alla loggia che si apre in cima alla rampa, viene oggi attivato da un’opera sonora di Andreoni, che si riverbera nell’ambiente di passaggio: no one n. one, una registrazione della voce dell’artista che dialoga con se stesso tra una cassa e l’altra, elencando una serie di verbi in inglese che esprimono varie possibilità di sentirsi “nessuno” o “il numero uno”, in virtù della similarità lessicale nella lingua inglese tra queste due espressioni. L’evidente richiamo alla storia di Odisseo, l’eroe celeberrimo, che per ingannare il gigante ormai cieco e non lasciare traccia di sé dice però di chiamarsi ‘Nessuno’, si intreccia col gioco intorno alla dicotomia tra il “sentirsi tutto” e il “non sentirsi niente”, in un luogo di passaggio storicamente predisposto ad annunciarsi al padrone di casa, prima di accedere alla sua abitazione.

Come tanti visitatori del passato approdo alla sala che solitamente segna l’avvio delle mostre che si svolgono nello spazio. Nella serie di 36 disegni a fusaggine disposti in batteria sulla parete principale riscontro nuovamente un prelievo dal contesto: stavolta sono il volume del salone adiacente e la sua peculiarità architettonica rappresentata dall’incurvatura della volta affrescata ad essere distillati e indagati nelle loro possibilità formali (Untitled (stanza aperta)). Le sommità arcuate delle pareti, i segni già stilizzati che richiamano l’affresco, financo le pareti stesse scompaiono via via; rimangono solo gli spigoli, come tronchi coronati dalle imposte angolari della volta; poi si innesca un nuovo processo germinativo e lo scheletro formale si carica di energia cinetica turbinosa, che collassa solo per un attimo in alcuni stati più stabili. È così che le quattro pareti diventano improvvisamente basi di innesto di archi gotici, ma tornano subito a gonfiarsi e ad obliterarsi, in un processo che si intuisce essere ciclico e senza risoluzione. La fusaggine, impiegata per disegnare, è il prodotto della carbonizzazione di pezzi di legno; così si allude alla materia bruciata nel corso dei secoli nei camini ormai inattivi, per riscaldare le stanze del palazzo, e questa materia diviene adesso scaturigine di “altre possibilità” architettoniche. A questo approccio analitico e intellettuale, che isola e avvicina a sé un elemento di interesse e procede a caricarlo di nuove suggestioni solo dopo averlo ridotto alla sua ossatura formale, corrisponde una simmetrica attitudine esperienziale. Proprio nel salone affrescato oggetto dello scrutinio di Andreoni si offre lo spettacolo crepuscolare di una torcia elettrica che, appesa al centro della volta, ruota sul proprio asse e proietta nel buio il proprio occhio luminoso verso l’affresco soprastante, una tipica quadratura bolognese di epoca settecentesca; più precisamente, verso la loggia colonnata che si articola attorno ad un cielo dipinto, ora offuscato dal tempo e dalla penombra (impossibile non pensare, per contrasto, al riquadro di cielo che coronava la corte). La velocità di rotazione, pur cadenzata e ipnotica, è abbastanza elevata da non consentire di soffermarsi per più di una frazione di secondo su alcun elemento della decorazione, che siano le personificazioni delle Virtù cardinali, i putti, le colonne di serpentino, i vasi di fiori sulla balaustra, a meno che non si decida di sostare su un particolare e di attendere pazientemente che la fonte di luce torni ad illuminare, di nuovo solo per un attimo, lo stesso punto. “L’immagine non si manifesta mai per intero – scrive la curatrice nel testo di sala – si affaccia e subito si ritrae, lasciando che sia il dilatarsi lento e costante del tempo a modellare ancora una volta l’esperienza dello sguardo, in una visione che sembra sfuggire proprio nel momento in cui la si cerca e che riappare nel ricordo di quanto è appena stato. «È passato! Che senso si ricava? / È come se non fosse stato affatto, / eppure gira in tondo, come fosse». Questi versi faustiani sembrano contenere l’ambiguità che l’opera abita: ciò che svanisce non smette di essere, nella consapevolezza che la sparizione non indica una fine, ma una condizione intermittente la cui sembianza muta restando traccia”.

La torcia rotante, dispositivo di disvelamento transitorio, è il fulcro gravitazionale della mostra (a cui presta il titolo, Another Chance), ed è come se attirasse a sé anche i suoni che abitano le sale adiacenti. Ancora si sente, pur fioca, la litania di no one n. one, ma una nuova traccia sonora, più lirica e di origine ancora ignota, entra con essa in risonanza. Torno sui miei passi e procedo in una saletta di raccordo, dominata da un lucernario – con le pupille ancora dilatate dallo sforzo di rincorrere nel buio l’occhio di luce in rivoluzione, è di nuovo la luce solare che adesso mi abbacina – ove riposano, appoggiate alle pareti, due grandi tavole con disegni di architetture (Flooding 1, Flooding 2). La finitura superficiale è matericamente affine con le stuccature circostanti, mentre il formato è compatibile con le porte murate. Sui pannelli è tratteggiata e ricomposta la scenografia architettonica rappresentata nell’affresco ormai ridotto a mera ombra – solo la sinopia è ormai visibile – che si trova proprio al termine del cannocchiale prospettico del cortile, di cui un tempo simulava un’ulteriore espansione in profondità. Di nuovo una campionatura analitica dà il là ad una costruzione immaginativa: l’ambiente voltato si trova adesso allagato da una distesa d’acqua di un blu profondo, il cui punto colore è a sua volta stato prelevato da una traccia di pigmento rinvenuta nei lacerti di affresco in un punto situato sotto la linea dell’orizzonte, e che dunque spinge a pensare che nella rappresentazione vi fosse un’analoga distesa d’acqua, oppure un cielo infinito. Invitato a partecipare a questo gioco di suggestioni e di rimandi, fantastico sul fatto che in quel mare profondo possa essersi inabissato il camino-diapason, come un antico dispositivo tecnologico perduto in un naufragio e riemerso solo in un momento di bassa marea, il cui originario scopo e funzionamento non è più intelligibile. Intanto si è fatto più nitido il canto che già si lasciava percepire, insieme agli scricchiolii del parquet provocati dal passaggio di altri visitatori, sin dalla stanza precedente; una volta entrato nel secondo salone affrescato vengo avvolto dal canto, irradiato unicamente da una piccola radiolina che staziona accanto ad un letto al centro della stanza, ma espanso e modellato proprio dalla forma bombata della volta, analoga a quella del salone parallelo. Così la peculiarità dissezionata analiticamente nella serie di disegni trova una nuova attivazione esperienziale. Una voce femminile intona a cappella, a ritmo lentissimo, la hit eurodance Better off Alone del gruppo Alice DeeJay, che così plasmata e rallentata si fa malinconica e sognante, manifestando la crisi dell’ottimismo verso un futuro di pace e prosperità che caratterizzava gli ultimi anni dello scorso millennio, quando la canzone, nel suo ritmo originale più sincopato e accattivante, scalò le classifiche. Il testo (“credi davvero di essere meglio da solo?”) invita a sfidare l’individualismo imperante della contemporaneità, rappresentato anche dal letto singolo e minuscolo rispetto alla stanza che lo ospita.


Ancora in balia del canto, accedo alla saletta d’angolo, il cui pavimento è interamente occupato da una composizione ordinata di riflettori luminosi di varie forme e dimensioni, un tempo impiegati per indirizzare la luce altrimenti isotropa delle proprie lampadine, e ora sollecitati dalla luce proveniente dalle due finestre, che scivola sulle loro superfici (Untitled (Reflectors series)). Rivolti verso l’alto, sono in muta conversazione con un altro soffitto affrescato. L’opera scaturisce da una visita ai cosiddetti Bagni di Mario, il sistema di approvvigionamento idrico cittadino concepito da Tommaso Laureti, architetto responsabile anche del progetto di Palazzo Vizzani. Nella cisterna è presente una nicchia a forma di conchiglia al cui interno altre conchiglie riflettenti un tempo ricevevano e moltiplicavano la luce veicolata dal loculo centrale della cupola. La valva dei Bagni di Mario trova un’eco nella decorazione del camino di questa stanza, che è poi quello prestatosi al calco in resina, così come il concerto di luci dei riflettori reifica il canto che ha seguito i nostri passi, perché essi vivono della luce con cui entrano in relazione. Torno indietro verso l’uscita; nella stanza iniziale, dominata dagli studi sulla stanza voltata, mi soffermo adesso sulla parete opposta. Un bozzetto a matita di piccole dimensioni mostra la visione prospettica di un individuo in una stanza svettante, il quale dirige il proprio sguardo verso un oculo del soffitto, da cui spunta un altro ritaglio di cielo, dello stesso blu profondo del mare che allaga le architetture calcinose nella stanza adiacente. Weltanschauung, ‘visione, rappresentazione del mondo’, è il titolo dell’opera, che allude alle innumerevoli prospettive adottate da chi ha abitato il palazzo nei secoli. Accanto è posta la fotografia in bianco e nero delle arcate in fuga prospettica di un portico bolognese, tagliata in modo da enfatizzare la reiterazione apparentemente senza fine di quel modulo architettonico (Untitled (It never ends)). In calce, due linee di dialogo tratte dal romanzo Le onde di Virginia Woolf fanno pensare al fotogramma di un film riaffiorato alla memoria collettiva: “– Is it over? / – It never ends. It only changes shape”. Sottoposte al processo astraente della rimozione della metà inferiore della fotografia, le arcate in successione paiono effettivamente una visualizzazione delle onde emanate da una sorgente di energia, così come nel romanzo i monologhi dei sei protagonisti collassano in un flusso narrativo palpitante di vita. Ora percepisco quell’energia elettrostatica, come sospesa nell’aria; il processo di distillazione delle tracce di vissuto è giunto a compimento. Mai più, tornando a visitare in futuro queste stanze, sarà possibile ignorare la sedimentazione di ‘visioni del mondo’ che ne ha plasmato (e continua adesso a plasmare, mostra dopo mostra) l’aspetto.

