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Franco Fontana. Modena dentro | FMAV – Palazzo dei Musei, Modena

Colore e geometria distillati dal reale: è in questa formula che si potrebbe indicare il fondamento della sintassi fotografica di Franco Fontana (Modena, 1933). Più precisamente, è grazie alla calibrazione di un’inquadratura e di una certa gamma tonale tendente alla...

Franco Fontana. Modena dentro, FMAV, Palazzo dei Musei, veduta d’allestimento | ph. © Rolando Paolo Guerzoni

Colore e geometria distillati dal reale: è in questa formula che si potrebbe indicare il fondamento della sintassi fotografica di Franco Fontana (Modena, 1933). Più precisamente, è grazie alla calibrazione di un’inquadratura e di una certa gamma tonale tendente alla saturazione che, nelle sue fotografie, emerge dalla superficie grezza delle cose una griglia formale che riempie gli occhi di colore. È con un omaggio tributato all’eminente concittadino in occasione del suo novantesimo compleanno che FMAV – Fondazione Modena Arti Visive inaugura il suo nuovo spazio espositivo, situato al piano terra dell’ex-Ospedale Estense, nel complesso del Palazzo dei Musei. La mostra Franco Fontana. Modena dentro (fino al 16 giugno) rappresenta un complemento e un inedito cambio di prospettiva sul lavoro del maestro rispetto all’ambiziosa mostra, dal titolo Franco Fontana. Sintesi, che FMAV gli aveva dedicato nel 2019. In quella occasione espositiva, squadernata negli spazi di Palazzo Santa Margherita, della Palazzina dei Giardini e del MATA – Ex Manifattura Tabacchi, era stata proposta una panoramica sulla lunga carriera del fotografo attraverso una sequenza di scatti di paesaggio perlopiù inediti e realizzati in tutto il mondo, messa in rapporto con un ingente corpus di stampe dei più svariati fotografi internazionali – da Luigi Ghirri, Mario Giacomelli e Gianni Berengo Gardin a Josef Koudelka e Sebastião Salgado – tratte dalla collezione personale di Fontana, che con quei fotografi ha intrattenuto rapporti prolungati. Sintesi si configurava, pertanto, come una ricognizione del filone più noto della sua attività, ovvero la fotografia di paesaggio, e insieme come un resoconto della fitta rete di relazioni con i colleghi internazionali che Fontana ha tracciato nel corso dei decenni. A cinque anni di distanza, la mostra che inaugura gli spazi dell’ex-Ospedale Estense si prefigge invece due obiettivi differenti: in primo luogo, dare uno spaccato di un altro filone importante ma meno conosciuto della fotografia di Fontana, vale a dire le sue campagne fotografiche per committenze private legate alle sfere creative del design, della  moda e in generale del Made in Italy; in secondo luogo, mettere a confronto questi scatti con opere d’arte contemporanea di artisti italiani ed internazionali che hanno condiviso con Fontana cifre formali e interessi espressivi. Per la selezione delle opere, FMAV si è avvalsa della collaborazione della Fondazione Arnaldo Pomodoro e di Studio Celant.

Franco Fontana. Modena dentro, FMAV, Palazzo dei Musei, veduta d’allestimento | ph. © Rolando Paolo Guerzoni

Il percorso di mostra, concepito dal curatore Lorenzo Respi, non intende suggerire nessi di stretta influenza reciproca tra lo stile e l’iconografia del fotografo e l’opera degli artisti – che comunque Fontana dichiara di apprezzare –, quanto piuttosto una convergenza comune verso certi stilemi, che attesta quanto il fotografo modenese sia stato sensibile alle riflessioni che hanno contraddistinto la ricerca artistica internazionale, anche quando era impegnato in incarichi professionali più strettamente connessi alla finalità, per quanto svolta sempre in chiave autoriale, della promozione di un prodotto. Il titolo, Modena dentro, si limita a sottolineare la centralità per Fontana del suo legame indiscusso con la città natale, che è rimasta negli anni la sua base operativa; ogni viaggio in Italia o all’estero condotto per motivi di lavoro è stato solo una parentesi di un percorso di vita strettamente legato al suo luogo natio. Pertanto, in mostra si alternano scatti legati a campagne fotografiche condotte sul territorio ed altri che invece lo hanno portato a spostarsi temporaneamente altrove; allo stesso modo, anche in fase di selezione delle opere d’arte si è prestata attenzione ai legami degli artisti con la città di Modena, oppure, di volta in volta, con le città in cui Fontana ha lavorato. La configurazione stessa del nuovo spazio espositivo, che si estende su due ali simmetriche sviluppate longitudinalmente rispetto all’entrata, si offre a giustapposizioni, scorci su più piani di profondità e richiami tematici da un lato all’altro della mostra; tutti aspetti che incoraggiano una lettura per corrispondenze e rimandi, prevalentemente (ma non esclusivamente) sul piano formale. La prima sala si apre con un inganno, nella veste di un apparente “paesaggio” ridotto alla più pura astrazione geometrica e cromatica. Un “cielo terso” che grava su una “collina”, disegnata da tre linee curve scaturenti da un’origine comune, che a loro volta sottendono campiture-volumi declinati nel nero, nel bianco e nel giallo più saturo: un vocabolario visivo che rimanda chiaramente ai celebri scatti realizzati da Fontana nelle campagne più incontaminate della Puglia, e che invece è usato per distillare un dettaglio purissimo di una lampada di Artemide (1970). Nelle immediate prossimità sono convocati in udienza i rappresentanti di altri due idiomi afferenti all’universo linguistico dell’astrazione: ecco che, nel confronto diplomatico, al fascio di linee curve di Fontana, in fuga dal gravare dell’azzurro, rispondono vicendevolmente la più statica, per quanto comunque variopinta, Ziggurat VI (1966-67) di Joe Tilson e il cerchio ocra che, con le sue effusioni di energia oscura, domina la Composizione (1960) di Mauro Reggiani (opera che, peraltro, ritorna a Modena dopo averla lasciata nel lontano 1984).

Franco Fontana, Venezia, 1990 | © Franco Fontana
Franco Fontana. Modena dentro, FMAV, Palazzo dei Musei, veduta d’allestimento | ph. © Rolando Paolo Guerzoni

Girato l’angolo, è un quadro specchiante di Michelangelo Pistoletto (Mollette, 1972) a intavolare un confronto con due scatti di Fontana: in modo diretto con il più vicino, in cui due damigiane per l’aceto balsamico sono raddoppiate dal loro riflesso (2007); in chiave di assonanza concettuale con la fotografia della serie I Dogi della Moda dedicata ad un abito di Paco Rabanne, messo in stretta correlazione con le colonne e un lampione di Punta della Dogana a Venezia (1984). Di nuovo a Venezia, nel 1990, Fontana immortala in primissimo piano un poster che riproduce una Marilyn di Andy Warhol trovato sul muro di una calle in prossimità di un ponticello, ricercando un effetto di assottigliamento dei piani di profondità che è da sempre una sua cifra stilistica. In mostra l’attrice ritorna immortalata a poca distanza in un décollage di Mimmo Rotella, che attua con la subitaneità dell’objet trouvé un analogo processo di stratificazione, insieme materiale e culturale (Marilyn, 2003). In entrambi i casi si registra una certa fascinazione nei confronti della proliferazione delle immagini nell’era della riproducibilità tecnica, aspetto che in Fontana è funzionale a creare un contrasto visivo con l’architettura storica della città lagunare. A questa duplice apparizione di Marilyn, deumanizzata ed assurta ad icona seriale, segue una nuova sequenza di configurazioni astratte di forme e di colori, talvolta riconnesse al piano tangibile dalla presenza, reale o evocata nelle fotografie, di materiali dell’industria. Così, una serie di fasce cromatiche a tempera e olio su carta (Senza titolo, 1967) di Toti Scialoja, un’ampia partitura modulare di tasselli ad olio su tela (Senza titolo, 1960) di Franco Bemporad e una scultura di ferro e cemento (Spazi di ferro n. 7, 1990) di Giuseppe Uncini dialogano, ognuna a suo modo, con una fotografia per la Bilfiger-Berger di Francoforte (2004): una superficie screziata da mille sfumature di ruggine, inquadrata frontalmente, su cui si staglia una sequenza regolare di tondini di ferro.  Nelle due fotografie successive, scattate in uno stabilimento della Casalgrande Padana, la gamma di tonalità si riduce al rigoroso bianco e nero di due pile di piastrelle di ceramica, viste lateralmente; anzi, al contrasto tra la griglia di sottili strisce bianche orizzontali e la fessura frastagliata – un “crepaccio” buio, se lo si immagina visto dall’alto – che si apre tra le due pile di piastrelle, ciascuna non perfettamente allineata in verticale. Unica traccia di colore è il numero identificativo del bancale, “554”, vergato con gli stessi caratteri a stencil che compaiono sul sacco di juta pieno di carbone appeso alla parete opposta, di fronte ad un foglio di carta bianco su cui della vernice nera ha aperto un’altra “voragine”. Quel sacco di juta e quel getto irruento di vernice costituiscono insieme un’opera Senza titolo (2006) di Jannis Kounellis.

Franco Fontana. Modena dentro, FMAV, Palazzo dei Musei, veduta d’allestimento | ph. © Rolando Paolo Guerzoni

Quasi nascosta, una piccola stampa di una foto scattata da Fontana in uno stabilimento Ferrari (1987). Il soggetto è un volume indefinibile: un drappo rosso delinea un’orografia di vette e di valli, ma in verità cela a sguardi indiscreti i prototipi di nuovi modelli d’automobile. Se l’incipit della mostra è un inganno visivo, la prima metà del percorso si chiude con un enigma insolubile. Inaugura la seconda parte un’altra fotografia dalla serie dei Dogi della moda, in cui un’anonima figura vestita da Courrèges si fa elemento di raccordo tra le colonne binate che sorreggono un’arcata gotica veneziana; à pendant, una tecnica mista su tela Senza titolo (1963) di Lucio Del Pezzo, che monta insieme elementi architettonici in gesso. Poi, l’ennesimo, duplice inganno: uno scorcio di paesaggio colto sopra le nuvole – in verità il set di un noto spot della Lavazza (2010) – e una scheggia di cielo precipitata nel bosco – una piastrella in grès porcellanato posata su una roccia ricoperta di muschio (2010). Di fronte, ecco in linea un altro ritaglio di pseudo-natura, vale a dire la riproduzione in poliuretano espanso di un­ angolo di spiaggia a firma di Piero Gilardi (Spiaggia con Tylocassis, 2006), e un’opera di Christo che rappresenta a matita e carboncino l’intervento di land art The Floating Piers sul Lago d’Iseo (2015), a tutti gli effetti una geometria astratta sovrapposta ad uno scenario naturale. Ma Fontana ha anche dialogato direttamente con l’opera di Christo, fotografando una scarpa impacchettata concepita da quest’ultimo per una collezione d’artista di Ferragamo, che richiama, da un lato all’altro della mostra, la Ferrari occultata. È con la lamiera di ferro piombato e le spirali di tubi di rame di un’opera di Arnaldo Pomodoro (La macchina del tempo, 1960), o con una rosa di glifi di Giuseppe Capogrossi (Superficie 68, 1954), che dialoga un altro scatto realizzato presso la Casalgrande Padana, che ha come soggetto una batteria di tubi inquadrata in tralice (2010). In parallelo, una tecnica mista di Roberto Crippa che assembla sughero e carta di giornale (Figure, 1961) si misura con una composizione di scampoli di pellame di vari colori disseminati a terra, in una foto (s.d.) che parla una lingua formale affine. Il tutto si conclude con un altro paesaggio astratto, un deserto assolato rosso saturo. Ma quel deserto è esso stesso un miraggio: un’altra lampada di Artemide, ridotta alla sua più profonda essenza progettuale.

Franco Fontana. Modena dentro, FMAV, Palazzo dei Musei, veduta d’allestimento | ph. © Rolando Paolo Guerzoni
Franco Fontana. Modena dentro, FMAV, Palazzo dei Musei, veduta d’allestimento | ph. © Rolando Paolo Guerzoni
Franco Fontana, Artemide, 1970 | © Franco Fontana