‘Il re è morto, viva il re!’ si sentiva udire nei secoli in cui la monarchia era l’unica forma di governo ammessa – in realtà, è capitato di risentirlo anche in tempi recenti, non essendosi mai estinta l’usanza di pronunciarla a ogni morte di un sovrano e consecutivo avvento di un suo successore. La storia della pittura, dalla metà dall’Ottocento in poi, sembra rispecchiarsi nelle medesime parole: ogni qual volta se ne decreta la fine, essa, difatti, torna puntualmente in auge. Ma cosa dire quando ci si trova davanti a lavori come quelli di Francis Offman?
La prima personale dedicata da P420 all’artista ruandese – trasferitosi in Italia all’età di dodici anni – è costituita da opere che fanno della pittura “una piattaforma per esprimere concetti complessi nella forma accessibile dell’epifania”, come scrive Simone Frangi nel testo critico che le accompagna: “Un luogo di macerazione, non gestuale né performativo”, in cui riversare la propria esistenza. Non l’idea di pittura cui di solito siamo abituati, pertanto, della cui nota tradizione attinge unicamente il fatto di essere realizzata su supporti fissati alla parete.
“Per ogni materiale che utilizzo, ne studio la storia e la struttura”, rivela Offman, mentre ci guida tra i suoi ultimi sforzi. “Concepisco l’arte come un processo di conoscenza, e i miei lavori come possibili chiavi per interpretarla. Come la conoscenza richiede anni per essere acquisita – fare una ricerca veloce su Google non equivale, infatti, a conseguirla – anche i miei lavori esigono tempo per essere completati”. È dall’appassionante dialogo intrattenuto con l’artista che veniamo a sapere di una presunta morte della pittura, ed è dalle sue parole che veniamo simultaneamente informati di una sua vigorosa rinascita. “Utilizzo il caffè, il cemento, la carta da pacchi, i fogli scartati dai miei compagni dell’Accademia di Bologna, o quelli da me, o da loro, già usati; le garze – come quelle che ho rimediato durante l’esperienza del Nuovo Forno del Pane al MAMbo – e i colori che in quel momento mi ritrovo nello studio. A ogni materiale attribuisco un significato ben preciso: il caffè, ad esempio, mi fa sentire vicino al resto del mondo, compreso al mio Paese, il Ruanda, produttore assieme al Brasile e a tanti altri. La carta, invece, è un modo per far parlare i miei amici dell’Accademia, che spesso me la offrono di loro spontanea volontà; è anche un richiamo alla scelta del governo ruandese di bandire la plastica dal Paese – decisione a dir poco coraggiosa. Il cemento mi riporta poi alla vicenda della morte di George Floyd e al movimento del Black Lives Matter: molti afroamericani vengono pestati e sbattuti per terra, contro l’asfalto; anch’io, in quel periodo, ho avvertito grande ansia e tensione – un qualcosa che non è facile da comprendere”.
Le tele, costituite da lino o cotone, divengono, dunque, dei sentieri attraverso cui esplorare il creato, non solo in termini geografici – dentro vi confluiscono l’Africa, l’Italia, gli Stati Uniti, ecc. – ma anche, e soprattutto, in termini esistenziali e strutturali. Basti pensare al grande Senza titolo (2021) composto interamente da caffè, il quale rappresenta per l’artista “un mappamondo, considerato il fatto che il caffè che troviamo nei supermercati è ottenuto dalla miscela di diverse varietà provenienti da tutto il globo. Per realizzare un lavoro del genere mi servo di una particolare colla, e del caldo dell’estate che contribuisce ad asciugarla: occorre pazienza, e anche molto impegno”. Il lavoro in questione, però, costituisce anche una risposta alle considerazioni che ruotano attorno le sue opere: “Molti credono che i miei lavori rappresentino dei mappamondi, delle cartine geografiche, ma non è così. O meglio, ognuno può vederci ciò che vuole – è per questo che non attribuisco mai dei titoli – ma se non ci si ferma alla superficie, ci si accorge che c’è dell’altro”. Una porta verso l’infinito, dunque, che attira e risucchia lo sguardo dell’osservatore, oppure un’indefinita mappatura dell’animo umano, decifrabile solo da chi sa leggerla bene – “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”, scriveva Ludwig Wittgenstein nel Tractatus, e usare i frammenti immaginari raccolti dall’esperienza del passato per ridisegnare i confini e le forme, verso nuovi orizzonti e mondi mai visti prima.
Nei miei lavori ritrovo la mia famiglia, i miei amici, i miei compagni e i luoghi che frequento ogni giorno. A volte rimandano a qualcosa di drammatico – ed è inevitabile, in questo frangente, ricordare il genocidio del Ruanda, evento che ha segnato profondamente la sua infanzia, perché, come tiene a sottolineare Offman, “dalla guerra non si esce mai vivi” – ma, nonostante tutto, voglio che infondano speranza e positività. Il mio intento è quello di stimolare l’immaginazione e la curiosità” prosegue, ricordando quanto sia importante, però, continuare a tenere i piedi ben saldi sul terreno: “In uno dei miei lavori ho utilizzato della carta prelevata dallo scatolo di una nota marca di scarpe. Questo mi riporta all’infanzia, a quando trascorrevo tutto il giorno scalzo, a contatto diretto con la natura. È importante mantenere questo contatto, sentire la terra sotto i piedi: ci fa comprendere quanto ognuno non sia un’entità isolata, distaccata, ma, piuttosto, facente parte di un tutt’uno molto più grande”.
Definire Francis Offman un pittore risulta alquanto riduttivo: non si è tali soltanto perché si lavora col colore su supporti bidimensionali che in un secondo momento vengono affissi a dei muri; vale per tanti altri artisti, per tutte le volte in cui la pittura è stata ingenuamente decretata morta. Del resto, come scrive Frangi, la pittura di Offman poco ha a che fare col “gergo codificato dai maestri occidentali iscritti nelle nostre storiografie”: ‘la pittura è morta, viva la pittura!’, dunque, per una forma espressiva che, grazie al lavoro dell’artista ruandese, ha trovato un’altra, stupefacente strada da percorrere.
Francis Offman
Dal 9 ottobre 2021 all’8 gennaio 2022
P420, Bologna