Testo di Vittorio Iervese —
Pubblichiamo una riflessione sulle photo trouvée, in occasione della pubblicazione del libro Fotografie ritrovate – a cura di Aurelio Andrighetto e Mauro Zanchi – postmedia books 2024
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Prima ancora di essere “trovata” una fotografia deve essere lasciata. Deliberatamente o inavvertitamente quella fotografia deve essere persa, abbandonata, accantonata, ignorata per poter essere successivamente scoperta e ri-trovata. Le ragioni di questo distacco possono essere molteplici ma ciò che importa è che quell’atto decreta la (temporanea?) non esistenza sociale di quei rettangoli di carta impressionata. Soltanto nel momento del ritrovamento queste fotografie riprendono a vivere socialmente, ovvero ad attivare interazioni e ad aprire orizzonti di senso.
La photo trouvée riafferma un fatto spesso dimenticato, ovvero che una fotografia è il risultato di un’interazione sociale, sia nel momento in cui viene scattata sia nei momenti in cui viene guardata, contemplata, ammirata, criticata, ecc. Il campo sociale della fotografia è triangolare perché riguarda tre polarità interagenti: un soggetto agente (chi fotografa), un soggetto di osservazione anch’esso agente (chi viene fotografato) e un ricevente (chi osserva la fotografia e di conseguenza il rapporto di interdipendenza tra “soggetto 1” e “soggetto 2”). In mezzo a tutto questo si pone il dispositivo (il medium) e una realtà interveniente e ridondante rispetto alla selezione operata dal soggetto-oggetto. Altre triangolazioni sono state ravvisate da studiosi della fotografia nel corso del tempo (es. immagine-corpo-medium) ma quella qui sinteticamente descritta si limita ad individuare i vertici della fotografia come interazione sociale. Le photo trouvée vanno quindi comprese all’interno di questa triangolazione, con tutta la rete di aspettative che ne regolano e complicano i rapporti.
Se assumiamo che la fotografia sia il prodotto della triangolazione sopra descritta possiamo anche aggiungere che si tratta di una sintesi delle prospettive divergenti di più “insiemi complessi” (i vertici del triangolo). Questo accade a prescindere dagli scopi e dalle caratteristiche degli “insiemi” che si trovano ad interagire. Non è detto nemmeno che tali insiemi debbano essere degli individui: abbiamo ben presente come ci si possa trovare a fotografare una realtà non umana o addirittura non organica, così come non è detto che dietro la macchina ci sia un fotografo, esperto o improvvisato che sia, e possiamo immaginare che il ricevente sia un’istituzione piuttosto che un individuo. Il prodotto di prospettive divergenti va inteso quindi nei termini di “doppia contingenza” (Parsons, Luhmann) tra sistemi costitutivi di senso che si trovano ad interagire avendo aspettative riflessivamente reciproche di comportamenti differenti. Nelle interazioni sociali si osservano le selezioni proprie ed altrui come contingenti, ovvero come possibili altrimenti. La contingenza non va quindi interpretata soltanto come dipendenza, ma come attualità possibile diversamente.
“Doppia contingenza non significa due volte contingenza semplice ma una nuova qualità di contingenza, specificamente sociale. Doppia contingenza significa, infatti, che la costituzione del mondo sociale contingente avviene sempre attraverso un duplice orizzonte di prospettive di sistemi co-costituentisi” (GLU)
Insomma, i tre vertici del triangolo possono fare cose ed elaborare significati divergenti, ed ognuno dei “tre” lo sa. La fotografia è la risultante di un coordinamento di questa divergenza non necessariamente di successo. Chi fotografa prova a far coincidere la realtà che incontra con sue aspettative iniziali in relazione anche a quello che immagina saranno le aspettative degli altri, chi viene fotografato si pone la questione di quale sia la sua aspettativa così come di chi lo sta fotografando e di chi guarderà l’immagine risultante, che a sua volta avrà altre aspettative e costruzioni di significato. Per certi versi questo discorso era stato parzialmente introdotto anche da R. Barthes:
“Dal momento che ogni foto è contingente (e per ciò stesso fuori senso), la Fotografia può significare (definire una generalità) solo assumendo una maschera. Questa è la parola che giustamente Calvino usa per designare ciò che fa d’un volto il prodotto di una società e della sua storia”
In un altro passaggio lo stesso autore specifica la posizione dell’osservato in relazione con le aspettative degli altri due punti del triangolo.
“Non appena io mi sento guardato dall’obbiettivo, tutto cambia: mi metto in atteggiamento di ‘posa’, mi fabbrico istantaneamente un altro corpo, mi trasformo anticipatamente in immagine (…) ahimè sono condannato dalla fotografia ad avere un’espressione”.
La contingenza è doppia perché deve tenere conto delle aspettative degli altri interlocutori, aspettative riflessive, complesse, che determinano l’interazione mediata da una macchina fotografica. Si tratta di aspettative di aspettative (anche dette aspettative riflessive); difatti, i risultati attesi non riguardano le azioni, le esperienze o le informazioni, bensì le aspettative su di esse. Io mi aspetto qualcosa ma anche io mi aspetto che tu ti aspetti e che io mi aspetti qualcosa.
Per regolare questo complesso sistema di relazioni si generano delle norme di aspettative contenute in generi, modi, etichette, ecc. Anche il più sprovveduto dei fotografi orienta le sue aspettative sulla base di ciò che ritiene adeguato a quella fotografia; non del bello ma dell’adeguato, dell’accettabile, del riconoscibile nel triangolo interazionale. Nel momento in cui queste norme sono riconosciute ed accettate il coordinamento avverrà più facilmente attraverso una sintonia delle aspettative. Diciamo in questi casi che ci troviamo di fronte ad aspettative normative il cui scopo è quello di essere confermate e non deluse. Abbiamo aspettative normative quando ci si attende che certe aspettative generalizzate rimangano stabili nella società. Le regole della “giusta” fotografia o la posa adeguata a quel determinato contesto o la composizione che esclude alcuni elementi sono parte di questo tipo di aspettative. Quando ci si aspetta che vi sia un cambiamento rispetto a certe aspettative generalizzate siamo di fronte ad aspettative cognitive che acquisiscono il loro valore proprio per la propensione a modificarsi in base ad un’idea di ciò che si ritiene, di volta in volta, migliore. In questi casi non sono più le norme a orientare le aspettative ma l’idea di un progresso. Infine, quando come risultato dell’interazione ci si attende l’auto-espressione da parte dei partecipanti anziché l’espressione delle aspettative generalizzate nella società, ci si trova di fronte a delle aspettative affettive. Con questo termine non ci si riferisce all’intimità quanto alla specificità e all’unicità dell’espressione e della ricezione dei partecipanti al triangolo interazionale. Queste tre aspettative possono essere facilmente riconosciute nella pratica fotografica professionale e artistica ma sono presenti in modo consistente e meno codificato anche nella fotografia vernacolare.
Lavorare con/sulle photo trouvée vuol dire allora andare a riconoscere come si struttura la doppia contingenza in un triangolo interazionale e quali sono le aspettative che vengono confermate o deluse.
A: “Mi fai una foto che gliela mando?
B: “Vieni qui davanti a queste frasche… ti sta benissimo quel vestito”
A: “Aspetta fammi rassettare i capelli”
B: “Mettiti un po’ di lato che stai meglio”
A: “Sto bene così? Non mi fare venire la pancia. Ci metto le mani che si vede meno”
B: “Più al centro… perfetta”
Siamo di fronte ad un’immagine costruita attorno a aspettative affettive (stare vicina ad una persona cara) ma che denota anche l’attenzione per aspettative normative (la persona posta al centro, la posa di tre quarti) e forse anche per quelle cognitive (il vestito buono, la collana di perle, il filo di rossetto per un make up che sta a metà strada tra quella “a cuore” degli anni ’20 e quella “ad uccello” che si impone sugli schermi cinematografici negli anni ’30). Per quale ragione questa foto sia stata abbandonata e poi ritrovata non ci è dato saperlo. Forse per un amore finito o una storia interrotta dai drammi della vita oppure ancora l’obsolescenza di un’immagine rimpiazzata nel tempo da altre più adeguate e più vicine alle aspettative dei diretti interessati. Ma quello che riporta in vita il ritrovamento di questa fotografia non è soltanto la storia plausibile della sua genesi quanto la distanza tra il triangolo interazionale originario e quello che ci troviamo a ricostruire e ri-significare. Il concetto dell’opera trovata è denso di implicazioni per il fatto che l’autorialità può essere ignota o dislocata (in un altro luogo, in un altro tempo e per altri scopi) e la doppia contingenza si fa oscura o solo allusa, tanto da essere necessario ricostruirne un’altra. La contingenza combina la possibilità con la non necessità e quindi questa fotografia si predispone a trovare ulteriori orizzonti di senso. Può partire con l’intenzione di testimoniare a qualcuno la continua vicinanza nel dolore per arrivare ad essere inclusa in un saggio che parla di photo trouvée. E cosa rende questa immagine degna di attenzione al mio sguardo? Sicuramente lo scarto tra la donna in primo piano, dolorosamente bella e vicina, e quella sullo sfondo, scomposta e quasi fantasmatica. Si tratta di uno scarto sia nel senso di una differenza sia nel senso di un residuo, di un avanzo di quella ridondanza del reale che fa saltare il coordinamento tra le aspettative degli attori in gioco. Lo sfondo così risale in superficie e turba l’ordine idealmente costruito nel triangolo interazionale. La donna dietro il recinto osserva la scena incurante e forse inconsapevole di essere lei stessa parte della scena, a distanza di tempo produce ilarità o inquietudine e diventa protagonista suo malgrado.
L’intromissione di elementi spuri o semplicemente imprevisti in un contesto orientato ad altre aspettative stravolge il quadro sociale e al contempo afferma la doppia contingenza (possibilità e non necessità). Forse è proprio per questo motivo che certe foto sono state abbandonate o messe da parte perché ritenute mal riuscite, inadatte allo scopo, goffe e sgrammaticate. Questo sovvertimento delle aspettative è ancora più evidente nei casi in cui le foto siano esplicitamente composte e organizzate, come in questa foto di gruppo.
Anche in questo caso una donna si intromette in una scena in cui non è contemplata. Questa volta con più prepotenza, come un comprimario che pretende il suo posto nella storia, come il proletariato che guarda in cagnesco la borghesia, il passato impermalito per la chiassosa gioventù presente, la donna in penombra prende posizione in un margine che si impone sul resto della scena. Il gruppo attende le disposizioni del fotografo: mani conserte, mani in tasca, mani poggiate sulle spalle della persona seduta davanti. Posizioni studiate per essere disinvolte ma al contempo in grado di mantenere un’adeguatezza e una convenienza di genere: le donne composte, gli uomini dinoccolati. Chi rompe queste convezioni e introduce un disordine in questo accordo di aspettative è la donna con posture maschili, quasi avanzante come una gradiva impertinente. E l’asse della fotografia ruota, in modo quasi magnetico a inquadrare l’ospite sgradito, lasciando fuori dal quadro il resto della compagnia seduta in posa per la foto di gruppo. E in questo modo, così come nel precedente, riusciamo a cogliere anche il contesto in cui la scena è immortalata: se nel primo caso la donna di tre quarti ostenta un’eleganza di periferia, in questo il gruppo incravattato e imbellettato nasconde parzialmente una scena agricola, fatta di campi e animali. Le due donne sullo sfondo fungono da mediatrici tra la messinscena e il retroscena.
Ecco allora che le aspettative sono orizzonti di senso possibili ma non necessari, smentiti puntualmente dall’eccedenza del reale che si intrufola nel triangolo interazionale mettendo in crisi le aspettative. Donne in gita al mare in un giorno di festa, messi su un piedistallo dal marito o da qualche amica, salite su un muro, una ringhiera o una scogliera per enfatizzare l’eccezionalità del momento senza perdere la compostezza della persona. Poi una folata di vento scompiglia i capelli, un curioso fa capolino per godersi il teatrino, delle figure enigmatiche portano avanti le loro azioni oscure in un angolo della scena e ci rubano lo sguardo. Se fossimo in un film, sentiremmo un regista infuriato gridare di interrompere la scena per rifarla, intimando alla persona “entrata in campo” di uscire immediatamente, come succedeva a Hrundi V. Bakshi in “Hollywood Party”. Ma qui siamo nel governo del fotografico, dove esiste “il particolare assoluto, la contingenza suprema, spenta e ottusa, il tale (la tale foto e non la Foto), in breve, la Tyche, l’Occasione, l’Incontro, il Reale” (Barthes). E così persino un asino (o più probabilmente un’asina) può introdursi tra il religioso e il profano, ricordando inconsapevolmente la sua natura a metà strada tra la saggezza e l’ignoranza. Come un memento di mondanità o una profezia sacra, l’animale irrompe tra lo sfondo e il soggetto in posa, anticipa un’epifania che potrebbe essere di gloria: “Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto sopra un puledro d’asina.” (Gv 12, 14-15), oppure soltanto di cocciuto lavoro.
Tutte queste figure, umane o animali, sono intruse ma non usurpatrici. Si intromettono lì dove non sono previsti ma è la previsione ad essere una pretesa impossibile, qualcosa che vorrebbe mettere tra parentesi la complessità del reale, annullare ciò che non coincide con l’aspettativa o che la delude, ciò che compromette la limpidità del progetto o l’integrità dei risultati attesi. L’ingenuo o il cospiratore, il passante o il curioso hanno la stessa funzione del bambino che confessa pubblicamente che il re sta girando nudo durante il corteo e quindi che è stato vittima di due scaltri truffatori. Non si tratta di sincerità contro ipocrisia ma dell’irruzione di aspettative discordanti che svelano l’inevitabile costruzione di ogni realtà. Ed eccola la figura bambina che dal margine del frame si insinua nei luoghi degli adulti, tra maschi potenti che ridono di battute che quella piccola convitata non deve o non vuole capire. Quella figura è letteralmente fuori luogo, nel posto sbagliato al momento sbagliato. Un fuori sincrono emozionante che anima una fotografia altrimenti risolta e risoluta: ragazzina, raccontaci i segreti carpiti in quel banchetto. Denuncia il chierico e l’onorevole. Esercita fino in fondo la tua azione dissacrante. Oppure girati a guardarci, con il tuo caschetto “Jeanne d’Arc” e l’espressione astuta e sfidante. Incurante delle occupazioni dei grandi, rivolti ad un presente già finito nel momento in cui è fotografato. Quello sguardo non è più uno sfregio della tela, uno sberleffo o un errore. Quello sguardo è l’essenza del fotografico, il momento in cui il rapporto tra chi c’era allora e chi si illude di esserci ora riprende vita e ricostruisce un’interazione. Grazie per non avere fatto quello che ti veniva chiesto e di essere tu a chiedere qualcosa a noi ora.
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Fotografie ritrovate
A cura di Aurelio Andrighetto e Mauro Zanchi
postmedia books 2024
174 pp. 120 ill. a colori e bn
formato 222×170 mm
isbn 9788874903801