
Vent’anni di Fotografia Europea: il festival che ha portato a Reggio Emilia la grande fotografia internazionale celebra quest’anno un grande traguardo, che ispira anche il tema scelto per questa edizione, Avere vent’anni (fino all’8 giugno). I direttori artistici Walter Guadagnini, Tim Clark e Luce Ebart hanno infatti deciso di rimandare, oltre alla storia del festival, a quella fase della vita fatta di incertezze e aspettative, di potenzialità e contraddizioni che gira attorno allo snodo dei vent’anni, tra adolescenza ed età adulta. Avere vent’anni: e cosa significa averli oggi, in un’epoca di nuova rivoluzione tecnologica, ma anche di crisi epocali e apparentemente insormontabili, sui fronti plurimi del clima, dei diritti civili e sociali e dell’instabilità geopolitica, che sembrano minare alle fondamenta ogni possibilità di futuro? “Romanticizzata e percepita come un’età d’oro – aggiunge Luce Ebart nel suo contributo in catalogo – la giovinezza è anche stigmatizzata e associata a stereotipi tanto negativi quanto positivi. A vent’anni si è attraversati da sentimenti profondi, da interrogativi esistenziali e da emozioni forti. Come restituire in fotografia questi interrogativi e questo tumulto interiore?”. Le oltre venti mostre, disseminate in un circuito di palazzi storici del centro della città, tentano di dare una risposta a queste domande, presentandosi come le tante facce di un prisma che rifrange le sfumature emotive di una generazione in balia di eventi di cui non è responsabile. La fotografia spia, scruta, indaga, penetra nella vita dei ventenni, ne cattura le espressioni rassegnate o in preda alla noia, cerca nei loro occhi una scintilla vitale. “L’energia della giovinezza, quella dei nostri vent’anni – prosegue Ebart – Che si manifesti nell’azione o nell’inazione, nella gioia o nella paura, nel desiderio o nel rifiuto, nella fiducia o nell’incertezza. A vent’anni, nel migliore dei casi, si ha la vita davanti, si vuole cambiare il mondo, si pensa di poterlo cambiare e a volte lo si cambia davvero. In ogni caso, si cambia. Nonostante tutto, e insieme”.

Il nucleo principale del festival è ospitato negli ambienti dei Chiostri di San Pietro. Le soluzioni allestitive, sempre diverse, pongono in dialogo i progetti fotografici presentati con gli spazi connotati del complesso. Al piano terra accoglie i visitatori l’importante retrospettiva di Daido Moriyama (1938), unica tappa italiana di un progetto itinerante che rappresenta anche la prima mostra di ampio respiro dedicata in Italia al maestro giapponese, a cura di Thyago Nogueira dell’Instituto Moreira Salles. Moriyama inizia la sua carriera come fotogiornalista nel Giappone del Dopoguerra, in quella fase in cui il Paese fu sotto occupazione militare statunitense e fu interessato da un processo forzato di rapida occidentalizzazione. Le foto del Moriyama “ventenne” mostrano in nuce le coordinate di un linguaggio estetico strettamente personale, che si allontanerà progressivamente dalla cronaca sedimentandosi su un bianco e nero contrastato, grezzo e materico, già articolato nella serie On the road (1968-1972), che lo vede viaggiare per il Giappone in autostop. L’evidente granulosità della stampa ai sali d’argento viene accentuata in fase di sviluppo e contribuisce a definire il mantra are, bure, boke (“sgranato, mosso, sfocato”). Manifesto del suo scetticismo verso la capacità della fotografia di essere specchio limpido del reale è il fondamentale volume del 1972, Farewell Photography: una successione di immagini eterogenee accomunate unicamente dal fatto di essere scarti di precedenti progetti, o elementi marginali (come le estremità delle pellicole), e a loro volta ulteriormente alterate da graffi e solarizzazioni. I soggetti perdono di importanza; unico filo conduttore è la riflessione intrinseca sulla natura e sullo scopo della fotografia. Dopo un periodo di crisi è all’inizio degli anni ’80 che Moriyama riprende a scattare, prima con la serie Light and Shadow, che scolpisce i volumi di oggetti comuni, e poi con l’autobiografico Memories of a Dog, che lo vede ritornare nei luoghi della sua giovinezza (1981-82). Ancora a distanza di anni, con Labyrinth (2012) il fotografo riflette organicamente su tutta la sua carriera, con un vero e proprio labirinto mnemonico di sequenze di immagini prodotte tra anni ’60 e 2000, che sembrano coesistere nell’eterno presente del suo immaginario visivo. Negli ultimi anni Moriyama giunge a includere nel proprio vocabolario estetico una gamma di colori saturi e artificiali, che gli consentono di interfacciarsi con il consumismo dilagante e con il mondo della pubblicità (Pretty woman, 2017). La mostra dà conto anche del forte interesse che Moryiama ha sempre mostrato verso il formato della rivista: tra la fine degli anni ’60 e l’inizio del decennio successivo partecipa alla seminale “Provoke”, nel 1972 fonda il proprio magazine indipendente, “Kiroku”-“Record”, poi interrotto dopo cinque numeri e ripreso nel 2006 (in mostra sono esposti tutti i 49 numeri prodotti finora).


Salendo al primo piano, la prima tappa del percorso espositivo è Slowly and Then All at Once di Andy Sewell (1978): un lavoro incentrato sulla crisi climatica, che si manifesta come un caleidoscopio di fotografie di manifestazioni ambientaliste, di incontri diplomatici di alto livello su temi climatici e immagini che sono invece più personali e liriche, legate all’esperienza quotidiana del fotografo in relazione agli eventi meteorologici. La scansione delle immagini si sviluppa per aggregazioni e dilatazioni ritmiche, come la risacca di un mare in tempesta di cui noi (come il fotografo, gli attivisti e i politici) siamo in balia. Dopo la tempesta, la bonaccia: Mal de Mer di Claudio Majorana (1986), un lavoro sviluppato in Lituania a stretto contatto con adolescenti e giovani adulti incontrati in campi estivi di periferia, riflette sul malessere latente e corrosivo che connota la fase delicata della crescita, nel Paese europeo con il più alto tasso di suicidi. L’obiettivo accarezza i volti assorti e intorpiditi della generazione post-sovietica, in scatti contemplativi che hanno per sfondo gli scenari brutalisti di Vilnius. Segue You don’t die, con cui la giornalista iraniana Ghazal Golshiri (1981) e la photo editor francese di Le Monde Marie Sumalla (1980) documentano i moti di rivolta del popolo iraniano, e in particolare delle donne, a seguito della morte della giovane Mahsa Amini avvenuta il 16 settembre 2022 per mano della polizia morale iraniana, secondo la quale il suo modo di vestire non era conforme alle leggi di costume della Repubblica Islamica. Accanto a immagini scattate da fotografi professionisti iraniani, viene presentato del found footage proveniente dai social network – le rare testimonianze che riescono a sfuggire alla censura governativa – che mostra anche manifestazioni di resistenza non violenta, come dei video apparentemente innocui di donne senza velo che ballano in strada, in verità una pratica severamente vietata dal regime. Colpisce, in chiusura, la registrazione che riprende una donna, Parastoo Ahmadi, mentre canta su un palco all’aperto senza spettatori, circondata da uomini che suonano vari strumenti: un gesto di ribellione intriso di poesia, che rischia di condannarla alla pena di morte. Proseguendo si incontra Raves and Riots di Vinca Petersen (1973), un diario per immagini di rave, raduni e manifestazioni illegali a cui la fotografa ha preso parte in tutta Europa, abbracciando una vita itinerante, alternativa e contestataria degli standard sociali consolidati, che ha raccontato nel suo libro No System. In mostra si susseguono anche i documenti che testimoniano gli arresti a cui la fotografa è andata incontro, oltre a carte stradali, registrazioni sonore e il video di un tunnel senza fine, filmato da uno dei camion che trasportavano l’apparecchiatura audio da un rave all’altro. Forte il contrasto con l’immaginario militare e patriottico che permea invece la serie We Are Carver di Jessica Ingram (1977), che ritrae gli studenti cadetti della George Washington Carver High School di Columbus, una delle più grandi strutture militari del mondo, in quella delicata fase di passaggio dall’adolescenza all’età adulta, che nel loro caso è segnata dall’inquadramento nei ranghi dell’esercito. Non ancora compiutamente irreggimentata nelle norme e nelle gestualità che implica il loro nuovo ruolo, la personalità dei ragazzi rimane latente – chissà per quanto ancora? – in un sorriso o in un movimento goffo.


Più si va avanti e più ci si rende conto di come un basso continuo del percorso espositivo sia il costante riaffiorare di momenti di contestazione del sistema, per cause di volta in volta differenti ma accomunate dallo stesso senso di giustizia generazionale, che si alternano invece a momenti di più intima riflessione sulla propria interiorità. Ne scrive anche Tim Clark in catalogo: “Grazie alla rappresentazione dei loro soggetti, [i fotografi] ci offrono uno sguardo sui giovani che si destreggiano nel mondo, che rifiutano lo status quo e alzano la voce in un’epoca di enormi trasformazioni globali – in una danza tra il piano collettivo e quello intimo, tra la storia e l’esperienza privata”. Nel corridoio centrale del primo piano dei chiostri si incontra How Was Your Dream? di Thaddé Comar (1993), un reportage che racconta le manifestazioni di Hong Kong del 2019 contro il governo cinese, mediante un’installazione fotografica che pende dall’alto e altri scatti disposti sulle pareti. Oggetto dello sguardo di Comar sono i volti dei cittadini di Hong Kong, nascosti in modo improvvisato da maschere e altri accessori per sfuggire al sistema di sorveglianza governativo. La palette è alterata e onirica, come sottile riferimento all’espressione che dà il titolo al progetto, e che corrisponde alla frase in codice con cui i manifestanti comunicano il loro coinvolgimento nelle proteste sui social media. Nei corridoi laterali, se Kido Mafon (1999) in Ifucktokyo – Dual Main Character (il suo lavoro è oggetto di una mostra per la prima volta in assoluto in questa occasione) documenta dall’interno la vita notturna e sfrenata di Tokyo, mediante una macchina analogica che restituisce la fibrillazione elettrostatica delle discoteche underground della metropoli, Control Refresh di Toma Gerzha (2003) al contrario penetra con uno sguardo intimo e accostante nella vita quotidiana, nei sogni e nei problemi della Generazione Z in Russia prima e dopo l’invasione dell’Ucraina. Anche Frammenti di Karla Hiraldo Voleau (1992) ha per oggetto la vita emotiva di una generazione: la fotografa domenicana-francese prende spunto dal documentario Comizi d’amore (1964) di Pier Paolo Pasolini per comporre una serie di ritratti fotografici di giovani italiani corredati da interviste che hanno per tema la loro vita sentimentale, in rapporto con fenomeni caratterizzanti il nostro tempo come la pervasività dei social media e una rinnovata sensibilità verso le tematiche di genere. I ritratti fotografici sono composti su nove fogli di carta accostati in griglia 3×3, che riportano sul retro le trascrizioni delle interviste attorno ad una riproduzione in piccolo – sul foglio centrale – dello stesso ritratto, così che ciascuna storia può essere esposta ambivalentemente in un verso o nell’altro.



Il doppio binario della documentazione dell’attivismo e del racconto del mondo interiore dei giovani si ripresenta anche nella seconda sede del festival, Palazzo da Mosto. Qui, in particolare, Federica Sasso (1992) presenta il progetto Intangibili, frutto della committenza di Fotografia Europea 2025, che si dedica a dare visibilità alle storie di ragazzi e ragazze del territorio emiliano-romagnolo che si ritrovano costretti a impiegare molto del loro tempo nell’assistenza a familiari bisognosi di cure, senza che la loro condizione di caregiver de facto sia in alcun modo riconosciuta e sostenuta. Si pone analogamente sulla traiettoria accostante della microstoria anche Octopus’s Diary di Matylda Niżegorodcew (2001),la quale giungeall’estremo di assumere per 48 ore l’identità dei propri soggetti, come se li abbracciasse con i propri “tentacoli”, sfruttando questo atto di impersonificazione per trovare il modo di vivere appieno la propria vita. Electric Whispers di Rä di Martino (1975) è invece il prodotto della presa di contatto dell’artista con i luoghi di aggregazione reali e virtuali dei giovani di Beirut, nel corso di alcuni viaggi in Libano a partire dal 2023, tra gli scogli della Corniche e le location fittizie dei videogiochi, strumenti di evasione da condizioni di vita precarie. Si pone all’altra estremità dello spettro Silent Spring di Michele Borzoni (1979) e Rocco Rorandelli (1973), che documenta con l’attitudine del fotogiornalismo il lavoro di vari gruppi di attivisti ambientali in tutta Europa, che tratteggiano il profilo di un fronte comune di contrasto alle politiche governative occidentali, insufficienti a rispondere efficacemente alle sfide rappresentate dalla crisi climatica. Completa il percorso a Palazzo da Mosto la rassegna di fotolibri Fluorescent Adolescent, che si presta a moltiplicare ulteriormente le sfaccettature dei temi portanti del festival. A Palazzo dei Musei si incontra la mostra Luigi Ghirri. Lezioni di fotografia, dedicata al leggendario ciclo di lezioni tenuto dal maestro di Scandiano all’Università del Progetto di Reggio Emilia tra 1989 e 1990. Il suo approccio all’insegnamento unisce affondi nella storia delle immagini alla presentazione di alcuni dei propri lavori, non con l’obiettivo di suggerire un percorso lineare bensì di fornire le coordinate di una “mappa” entro cui muoversi autonomamente attraverso delle esercitazioni. In mostra sono esposte alcune delle serie su cui Ghirri era a lavoro in quel periodo, assieme ad altre esercitazioni, concepite dagli artisti Luca Capuano (1977) e Stefano Graziani (1971) rifacendosi a quelle di Ghirri – ma anche al lavoro di altri maestri dell’esercizio, del protocollo e della variazione sul tema come George Perec e John Baldessari – per un laboratorio condotto con un gruppo di studenti e studentesse dell’ISIA di Urbino. Completano la mostra fotografie storiche provenienti dalle raccolte del Liceo artistico “Gaetano Chierici” di Reggio Emilia, che presentano segni di quadrettature, appunti e schizzi, a testimonianza del fatto che quelle foglie e quei dettagli architettonici erano impiegati come materiale di studio.


Il percorso di Palazzo dei Musei continua con la selezione dei sette progetti finalisti della 12esima edizione Giovane Fotografia Italiana – Premio Luigi Ghirri 2025, ospitati al secondo piano. Serena Radicioli (1997) con Non sei più tornato orchestra immagini d’archivio pubbliche e familiari in una narrazione che tenta di colmare il vuoto di un grave lutto personale legato a un fatto di cronaca nera. La storia familiare è la via seguita anche da Davide Sartori (1995) in The Shape of Our Eyes, Other Things I Wouldn’t Know, con cui tenta di riavvicinarsi emotivamente e fisicamente alla figura del padre. È invece una riflessione sulla propria eredità culturale e sul ruolo della lingua come barriera e insieme come ponte ad informare Ingrediente pentru un tort de miere, cu dragoste di Sara Lepore (1999). Sia in Pasqyra e Lëndës (Sommario) di Erdiola Kanda Mustafaj, sia in La festa dell’Equatore di Rosa Lacavalla (1993), i temi paralleli dell’attraversamento dei confini, della diaspora e dell’incontro difficile tra diverse culture si ammantano di un’aura tra l’onirico e il mitico. Il tema dell’“attraversamento”, inteso stavolta in riferimento ai territori metaforici e cangianti del genere e dell’identità, connota anche Memorie del transitare di Grace Martella (2006). Infine, La dote di Latera di Daniele Cimaglia (1994) e Giuseppe Odore (1995) coinvolge gli abitanti di un comune della Tuscia in un progetto di arte partecipativa che mira a riattivare pratiche connesse alla cultura materiale tradizionale per ispirare nuove pratiche sostenibili: la fibra della canapa, la cui lavorazione è stata il fulcro della storia del piccolo paese di Latera, necessita di meno acqua del cotone e favorisce un’economia circolare.
Si segnalano, in chiusura, anche la mostra alla Biblioteca Panizzi Attraverso la luce, che espone fotografie storiche delle collezioni della Fototeca, e Volpe Laila Slim e gli altri presso lo Spazio Gerra, dedicata all’esperienza dei giovani partigiani nella Resistenza italiana. Completa l’offerta del festival l’importante monografica di Viviane Sassen (1972) ospitata dalla Collezione Maramotti.
Cover: Daido Moriyama, Kanagawa, 1967. From A Hunter | © Daido Moriyama/Daido Moriyama Photo Foundation



