La quarta edizione della Biennale di Fotografia dell’Industria e del Lavoro è un racconto per immagini dei profondi cambiamenti che derivano dall’impatto antropico sull’ambiente che ci circonda e riflette su quella che il geologo Peter Haff ha definito tecnosfera, ovvero l’insieme delle strutture che l’uomo ha progettato e costruito nel tempo. A partire da queste suggestioni sono stati scelti gli artisti e costruiti i percorsi delle mostre: “Nella logica perseguita dalla Fondazione MAST, arti, tecnologia e sperimentazione sono aspetti complementari, e la fotografia non è solo il risultato di un’esperienza estetica ma anche un oggetto che suscita continue domande e ci impone di riunire esperti di discipline diverse per riuscire a elaborare risposte efficaci” aggiunge Isabella Seràgnoli, Presidente Fondazione MAST. Cosa significa costruire? Che processi presuppone e quali possono essere i suoi risultati?
L’edizione 2019 comprende 11 mostre allestite in palazzi storici di Bologna con la direzione artistica di Francesco Zanot. Le opere scelte dialogano molto bene con gli spazi che li ospitano e creano immagini e suggestioni interessanti. “Senza alcuna pretesa di esaustività, impossibile obiettivo in un campo tanto esteso, ciascuna mostra costituisce uno specifico approfondimento di un aspetto cruciale della sconfinata materia del costruire” racconta Francesco Zanot “Non è soltanto una questione di numerosità dei soggetti, ma anche dei punti di vista da cui possono essere osservati e delle conseguenti implicazioni”.
Le fotografie di Albert Renger-Patzsch (“Paesaggi della Ruhr”, a cura di Simone Förster), allestite fra le mura dipinte di verdeacqua della Pinacoteca Nazionale di Bologna, raffigurano paesaggi industriali, privi quasi in assoluto di una presenza umana. Lampioni, tralicci, ma anche alberi e bestiame, caratterizzano gli insediamenti rurali e urbani rappresentati dal fotografo tedesco che documenta il rapporto tra il paesaggio e le più antiche installazioni ottocentesche, scenari archetipici dell’industria moderna. Le settanta fotografie presenti provengono dalla Pinakothek Der Moderne di Monaco.
Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna – Casa Saraceni espone le inedite fotografie di André Kertész (“Tires/Viscose” a cura di Matthieu Rivallin), il celebre pioniere della street photography. In mostra sono presenti due lavori del 1944. Il primo è un reportage sugli stabilimenti Firestone che raccontano l’impegno dell’azienda nella produzione militare e i benefici che potrebbe ricavarne l’economia americana del dopoguerra. Sempre in quegli anni Kertész viene incaricato di condurre una campagna per la fabbrica e il centro di ricerca dell’American Viscose Corporation durante la quale fotografa, con molta attenzione alla composizione e all’illuminazione, gli operai al lavoro. Kertész, attraverso un certo riguardo per il dettaglio, celebra la produzione di nuovi materiali tecnologicamente avanzati e il rapporto tra macchina e uomo.
La prima mostra di Luigi Ghirri (“Prospettive industriali”) sui suoi lavori commerciali per Marazzi, Ferrari, Bulgari e Costa Crociere è presentata nei suggestivi sotterranei di Palazzo Bentivoglio. Nelle sue fotografie gli oggetti industriali diventano nature morte e documentano i processi di produzione delle aziende con le quali collabora. Il lavoro con le quattro commissioni industriali presenti in mostra sottolineano l’urgenza di Ghirri di continuare a raccontare la sua poetica attraverso l’utilizzo di una serie di motivi ricorrenti che rimandano al suo più noto lavoro di ricerca.
“Porto di Genova”, la mostra a cura di Giovan Battista Martini presso Genus Bononiae – Oratorio di Santa Maria della Vita, raccoglie le fotografie di Lisetta Carmi che realizza, nel 1964, uno dei più significativi reportage del dopoguerra sul tema del lavoro. Il suo sguardo è rivolto verso il porto di Genova e al suo rapporto profondo, e al tempo stesso contraddittorio, con la città. Altro progetto inedito presente in mostra – dal titolo Italsider – racconta di un’industria siderurgica di quegli anni a Genova. Le intime fotografie di Carmi si fondono con la sacralità dello spazio allestitivo e diventano testimonianza di verità e bellezza. L’uomo al lavoro è protagonista assoluto dell’indagine sociale e politica condotta dall’artista.
Lo spazio monumentale della sala lettura della Biblioteca Universitaria di Bologna accoglie “Prospecting Ocean” – a cura di Stephanie Hessler – il lavoro di tre anni di ricerca condotto da Armin Linke sullo sfruttamento dei fondali marini. Fra il 2016 e il 2018 l’artista ha visitato diversi importanti laboratori di scienze marine del mondo e ha intervistato esperti di diritto presso la International Seabed Authority di Kingston in Giamaica. Ha inoltre partecipato alla conferenza internazionale sul futuro degli oceani organizzata nel 2017 presso le Nazioni Unite a New York e ha parlato con gruppi ambientalisti in Papua Nuova Guinea. Una selezioni di materiali di ricerca, video e fotografie ricostruiscono la fitta rete di collegamenti tecnocratici tra economia, politica, scienza e grande industria e riflettono sulle conseguenze pericolose legate all’intervento umano nella topografia sottomarina.
Anche Délio Jasse con “Arquivo urbano”, presso la Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna – Palazzo Paltroni, indaga l’impatto sociale e politico legato all’azione dell’uomo. L’artista racconta la storia di Luanda, capitale dell’Angola, che oggi conta cinque milioni di abitanti, numero che si pena raddoppierà nel giro dei prossimi anni. La città è, infatti, tra le metropoli con il più alto tasso di crescita dovuto alle ingenti costruzioni edilizie a opera di imprese cinesi e internazionali, nello scenario di un nuovo colonialismo. L’artista utilizza immagini preesistenti provenienti dal suo archivio personale che modifica e rilegge per dar vita a possibili scenari futuri. Jasse non lavora con la fotografia, ma sulla fotografia: mentre in Sem Valor (2019) le immagini sono stampate a mano con un lungo processo che sfrutta la luce solare, nella serie Arquivo Urbano (2019) e Darkroom (2013) le fotografie delle architetture vecchie e quelle nuove sono sovrapposte in trasparenza. In queste immagini la città di Luanda sembra così perdere forma e, al contempo, se stessa.
David Claerbout con “Olympia” prende a campione una delle più grandi imprese architettoniche del tempo, l’Olympiastadion di Berlino, e ne simula la dissoluzione nell’arco di mille anni. Collocata in una dimensione spazio-temporale privata della presenza umana, la ricostruzione digitale segue la teoria del “valore delle rovine”, secondo la quale il decadimento dell’edificio sarebbe pre-incorporato nel suo stesso progetto. L’attesa diventa il sentimento e il tempo che scandisce l’evolversi della struttura: stagione dopo stagione, anno dopo anno, questa architettura – in apparenza senza tempo – verrà sommersa dalla vegetazione circostante. L’installazione si trova nello Spazio Carbonesi che, grazie alle sue dimensioni, permette un dialogo libero e diretto con l’opera.
Le settanta fotografie di Yosuke Bandai (“A certain collector B”, Istituzione Bologna Musei – Museo Internazionale e Biblioteca della Musica) sospese nello spazio grazie a una griglia metallica, circondano gli spettatori e suggeriscono la possibilità di una sua prosecuzione all’infinito. Il lavoro di Bandai prende vita dalla raccolta di una serie di oggetti abbandonati per strada che diventano poi gli elementi base per sculture effimere. Queste composizioni polimateriche e multicolore vengono successivamente scannerizzate dall’artista e presentate sotto forme di stampe fotografiche che diventano così immortali.
Le immagini di Stephanie Syjuco (“Spectral city”, MAMbo – Museo d’Arte di Bologna) ripercorrono, grazie a Google Earth, l’itinerario del cable car per la città di San Francisco filmato nel 1906 dai Miles Brothers, celebri pionieri del cinema muto. Le immagini che registrano diventano, a loro insaputa, testimonianze di una memoria che stava per scomparire per sempre. Qualche giorno dopo, infatti un terribile terremoto devasterà la città. Syjuco nel riproporre il percorso di A Trip Down Market Street non utilizza una videocamera ma immagini satellitari, fotografie aeree e dati tipografici per ottenere un modello tridimensionale del percorso. L’artista interviene minimamente in post-produzione e sfrutta gli errori, le distorsioni e le fratture generate dal programma che, in automatico, cancella ogni presenza umana, per evocare la distruzione della città avvenuto oltre un secolo prima e la sua attuale alterazione urbana e sociale.
Anche la Pinacoteca Nazionale di Palazzo Pepoli Campogrande di Bologna diventa scenario di riflessioni sul futuro e sulla natura circolare e inarrestabile del costruire. La mostra “H+” , ospitata al suo interno, presenta le opere dell’artista svizzero Matthieu Gafsou, un ampio documentario fotografico sul movimento del transumanesimo che vede la tecnologia come una possibilità per arrivare all’immortalità e quindi strumento imprescindibile da sfruttare per aumentare le nostre performance fisiche e cognitive. Il soffitto affrescato con il trionfo di Ercole e il verde del chroma key cinematografico sui monoliti che supportano le opere, sottolineano il carattere disturbante delle immagini di Gafsou, contraddistinte dalla dissoluzione dei confini tra tecnologia e persone. Dalle lenti a contatto all’apparecchio per i denti fino a giungere a questioni più complesse, la continuità tra uomo e macchina pone questioni importanti anche in campo etico e morale.
Infine “Anthropocene”, ospitata negli spazi della Fondazione MAST, riunisce i lavori di Edward Burtynsky, Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier. A partire dalle ricerche dell’Anthropocene Working Group la mostra – a cura di Urs Stahel – mette a fuoco le stesse categorie di indagine del gruppo (estrazione, terraformazione, tecnofossili, antroturbazione, cambiamento climatico, estinzione) e riflette sul tema, non per esprimere un giudizio ma per promuovere una conoscenza esperienziale.
IV Biennale di Fotografia dell’Industria e del Lavoro
Tecnosfera
Bologna
Fino al 24 novembre 2019