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Dall’ottobre scorso è nato a Verona un nuovo spazio culturale, Fonderia 20.9 e ha tutte le carte in regola per trasformarsi in un interessante laboratorio di cultura visiva e fotografica, nella città in cui da tempo il Centro Internazionale di Fotografia Scavi Scaligeri – luogo istituzionale della fotografia cittadina – ha chiuso i battenti. Scopro Fonderia 20.9 incuriosita dalla presentazione dell’ultimo progetto ospitato nei suoi spazi: la fanzine “Parco”, a cura di Steve Bisson, che oltre ad essere un accuratissimo prodotto editoriale, sia dal punto di vista grafico che concettuale, è anche una mostra (visitabile fino al 12 marzo) del collettivo Synap(see), composto dai fotografi Andrea Buzzichelli, Emanuela De Luca, Paola Fiorini, Antonella Monzoni, Stefano Parrini e Giovanni Presutti.
Dall’estate 2014 il collettivo si è impegnato in una profonda e variegata ricerca sulla complessità della definizione di parco. “Dove inizia e finisce un parco?” si domanda il curatore del progetto, “se osserviamo un parco è evidente che le relazioni che esso instaura con il territorio non si esauriscono nella sua delimitazione amministrativa. In qualche modo il futuro, o la salute di un parco, dipendono da ciò che accade dentro e fuori di esso…I parchi italiani rappresentano un arcipelago di territori, ecosistemi, paesaggi assai diversi. Come diverse sono le definizioni che il concetto di parco racchiude: parchi nazionali, regionali, riserve, zone umide, oasi, reti e aree protette. Non solo ambiente ma abitanti, persone, centri di visita, centri di educazione e formazione, scuole e università, diritti e istituzioni. Un brulicare di aspettative e prospettive non sempre coerenti.”
In mostra c’è il lavoro di Stefano Parrini sul Parco Regionale delle Alpi Apuane, un’area interessata da processi di degrado, legati alle attività estrattive delle cave di marmo e al progressivo abbandono di molti centri abitati ormai depressi. Allo stesso tempo, però, il progetto racconta la visibilità del brand Marmo di Carrara che trasforma il parco in una meta di consumo turistico. Similmente, le ‘Isole di plastica’ di Giovanni Presutti, elaborate al limite del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, sono frutto di una giustapposizione di immagini di oggetti di plastica raccolti sulle spiagge dell’Elba e visioni oniriche dell’isola. “Il titolo della serie, se da un lato richiama la debolezza plurale dell’arcipelago – ovvero il rischio che ‘l’effetto Elba’ si ripresenti sulle altre isole – dall’altro punta l’accento su un fenomeno la cui portata ambientale esula da qualsiasi confine di competenza.”
La serie ‘Erto = Ripido’ della veronese Paola Fiorini gioca sull’assonanza tra il nome del paese del Vajont dove la fotografa ha preso i suoi scatti e l’asprezza della sua storia ambientale. Le fotografie sono infatti realizzate nell’ambito del Parco Naturale Dolomiti Friulane e Vajont. La fotografa ha accompagnato per dieci giorni un gruppo scout durante un campo estivo, offrendo al nostro sguardo dei ritratti freschi di gioventù alle prese con il mondo naturale. Antonella Monzoni ha invece lavorato sulla parte emiliana del Parco del Delta del Po, dove ha raccolto immagini in cui la natura e l’attività umana, la pesca, l’agricoltura, le saline, si mescolano in maniera quasi congenita: un parco che assomiglia a un’invenzione umana più che a un organismo naturale. Emanuela De Luca lavora sul Parco Regionale del Partenio, zona irpinica “di lupi, monti, memorie di briganti e antichi paesini”, come lei stessa racconta e ricorda attraverso immagini offuscate su cui sono incisi dei numeri che corrispondono alla concentrazione della presenza umana sui profili montuosi, da lei amati e vissuti. Infine, Andrea Buzzichelli, che dopo alcuni sopralluoghi nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, ha scelto di guardare ciò che normalmente è proibito: ha elaborato un archivio di immagini prodotte mediante le foto trappole dalla locale Guardia Forestale. Il risultato è una visione notturna degli “abitanti animali” del Parco, che rileva “un senso di potenza intrusiva in un mondo che altrimenti non sarebbe svelato, e una sorta di fascino “voyeuristico” verso la natura stessa”.
In occasione del progetto “Parco” esposto a Fonderia 20.9 raggiungo i creatori dello spazio e porgo loro qualche domanda:
Che cos’è Fonderia 20.9 e da chi è composta?
Fonderia 20.9 è un’Associazione Culturale che si occupa di fotografia e arti visive in generale, nata a Verona nel 2015, fondata da Francesco Biasi, Chiara Bandino ed Emanuele Brutti.
Come vi si siete incontrati? Quali sono le caratteristiche del vostro spazio culturale? Mi pare di aver capito che si tratta di uno studio di fotografi (voi tre) ma anche di un luogo che ospita progetti di cultura fotografica, intesa in senso ampio.
Con Chiara, che è romana, abbiamo studiato fotografia documentaria insieme prima a Roma e poi a Milano. Emanuele, che invece è veronese, lo abbiamo conosciuto tramite amici fotografi in comune. Il mondo della fotografia (almeno di un certo di tipo) è abbastanza piccolo, e ci è sembrato naturale, una volta rientrati a Verona, cercare chi avesse con noi affinità di percorso e interessi. Anche per questo è nata Fonderia 20.9: quello che stiamo cercando di costruire è un spazio di incontro per chi come noi è interessato alla fotografia o, meglio, alle arti visive come linguaggio e mezzo espressivo.
Fino ad oggi le nostre attività hanno spaziato da esposizioni di mostre abbastanza tradizionali a performance musicali, presentazioni di magazine e libri e un po’ di didattica molto mirata ad argomenti che ci stanno a cuore. L’obiettivo principale, comunque, rimane l’aggregazione di idee e capacità diverse e, devo dire, che siamo molto sorpresi da come Verona abbia risposto positivamente permettendoci di incontrare molti autori validi, ognuno con la propria esperienza e preparazione ma di assoluto valore. In Fonderia ci siamo tenuti uno spazio dove lavorare sui nostri progetti personali e una piccola biblioteca di cui siamo molto orgogliosi: libri di fotografia e grafica contemporanea, frutto di passione e di una ricerca attenta nel settore dell’editoria soprattutto da parte di Chiara.
Mi raccontate il progetto passato di cui siete particolarmente orgogliosi e il progetto futuro che aspettate?
Francesco: per quanto mi riguarda non posso non ricordare Il progetto “Gone to the dogs” del Collettivo Domino di cui io e Chiara facciamo parte. E’ stata un’esperienza umana e lavorativa molto interessante: sette fotografi per raccontare una storia di confino ai tempi del fascismo. Il risultato è stata una mostra composta da fotografie, still life, documenti storici, video ed oggetti che abbiamo portato in giro per l’Italia. Il progetto futuro che sto aspettando è quello che riguarda una storia in Sud America, da un po’ ho cominciato le ricerche, ma sono ancora agli inizi.
Chiara: dal 2012 al 2015 ho lavorato al mio libro autoprodotto “Life is a song”. Racconta la storia della prigionia in Germania di mio nonno Paolo come soldato italiano durante la seconda guerra mondiale. Ho seguito come traccia un diario che abbiamo ritrovato in cantina dopo la sua morte che racconta la vita quotidiana nel campo di Sandbostel vicino a Brema. Nel 2013 ho ripercorso tutto il viaggio che dalla Polonia lo portò in Germania in treno dopo la cattura da parte dei tedeschi in seguito all’armistizio del ’43. Il libro è un insieme di foto e testi miei e suoi, di documenti storici e riferimenti geografici. Ovviamente è un lavoro di ricerca molto personale. Il progetto futuro che sto aspettando è qualcosa su cui ho già iniziato a lavorare e riguarda il rapporto uomo-natura e la riqualificazione del paesaggio.
Emanuele: nel 2014 ho prodotto una Fanzine dal titolo “Solo un altro pugile”: è una ricerca su un ambiente che per anni ho frequentato, quello del pugilato dilettantistico, una visione dall’interno per raccontare da un punto di vista diverso uno sport che, a certi livelli, non ha nulla a che fare con la violenza a cui solitamente viene accostato. Nel 2015 ho avuto il piacere di esporre il lavoro a Les Boutographies, un festival di fotografia che si tiene ogni anno a Montpellier nel sud della Francia. Sono appena tornato dagli Stati Uniti dove ho iniziato un lavoro sul tema della segregazione residenziale nelle città americane. Penso che questo sarà il progetto che mi terrà impegnato nei prossimi mesi, anche perché dovrò tornare più volte per seguire nuove strade ed approfondire l’argomento.