Flavio Favelli – Profondo Oro | Intervista con il curatore Pietro Gaglianò

Il curatore ci racconta lo sviluppo di una mostra con la quale l'artista declina la propria interpretazione di un fattore sociale tutto nazionale: il desiderio borghese del lusso e del benessere materiale.
28 Settembre 2020
Flavio Favelli, Profondo Oro, 2020. Veduta dell’allestimento. Arte in Fabbrica – Gori Tessuti e Casa. Foto Serge Domingie © Flavio Favelli
Flavio Favelli, Tempo Aureo, 2020, smalto su cartoni assemblati, cm 150×150. Foto Serge Domingie © Flavio Favelli

È Flavio Favelli il protagonista del secondo appuntamento di Arte in Fabbrica, l’iniziativa ideata e promossa da Gori Tessuti e Casa. Cura il progetto Pietro Gaglianò che, nell’intervista che segue, racconta lo sviluppo di una mostra con la quale Favelli declina la propria interpretazione di un fattore sociale tutto nazionale: il desiderio borghese del lusso e del benessere materiale. Un universo sociale che trova la sua più ampia ed esplicita espressione in uno degli ambienti più cari alla poetica di Favelli, quello dell’abitazione privata. Nel nuovo spazio espositivo, realizzato al primo piano della sede storica dell’azienda, ante, specchiere, comò e assi di legno si sovrappongono e si accatastano dopo essere state smembrate in strutture simili ad altari, mentre all’esterno, su una delle pareti dell’edificio, troneggia come un’inserzione pubblicitaria il grande “muro dipinto”, l’Arte/Lavoro per eccellenza per Favelli, nel quale sono i particolari di alcune etichette di tessuti ed abiti ad essere scomposte e poi ricomposte in nuova forma.

Guendalina Piselli: Profondo Oro, mostra personale di Flavio Favelli, è il secondo progetto parte dell’iniziativa Arte in Fabbrica lanciata e ospitata da Gori Tessuti e Casa. Come si sviluppa questo secondo appuntamento e in che modo le opere di Favelli si inseriscono in questo ambiente?

Pietro Gaglianò: Gli spazi espostivi di Arte in Fabbrica si trovano nello stesso grande edificio che ospita la ditta, dove al piano terra c’è la grandissima rivendita di tessuti, mobili e altri oggetti provenienti in larga parte dall’Asia. Al primo piano ci sono gli uffici e qui si trova anche il vasto spazio in cui vengono allestite le mostre. L’estetica delle opere di Flavio Favelli apparentemente richiama l’affollarsi eteroclito delle merci del negozio, e in una certa misura c’è una stessa convergenza di vicende stratificate, di provenienze remote (lì nella geografia, qui nel tempo), e c’è una simile fascinazione per i materiali, per la loro storia industriale e per il modo in cui gli oggetti occupano e descrivono la vita delle persone. La ricerca di Flavio si nutre di tutto questo ma, naturalmente, si spinge oltre l’orizzonte della funzione, dalla commerciabilità dell’oggetto. Si potrebbe dire, anzi, che compie il percorso inverso: riporta l’individualità, che i beni comprati hanno acquisito, verso una dimensione collettiva, per raccontare una storia nazionale, di classe. Nelle grandi sculture che abitano lo spazio espositivo, fatte di mobili smembrati, raccolti alla fine della loro vita utile, si intravede un grande affresco storico, che include il presente e il passato e, riflettendosi nella laboriosità di quanto avviene al piano di sotto, racconta anche il futuro.

GP: Al centro dell’indagine di Favelli torna ancora una volta l’ambiente domestico, rigorosamente borghese, attraverso i suoi oggetti mettendo in scena quell’aspirazione al lusso che ha caratterizzato il sogno italiano dal boom economico ad oggi. Cornici, porte, armadi assumono così valenze sociali e culturali. Si può parlare, in tal senso, di una certa forma di animismo nella pratica di Favelli?

PG: Sì, c’è un animismo dell’inorganico che innerva la sua ricerca e nutre tutte le sue opere. Favelli rende visibile in ogni elemento il collegamento tra gli oggetti d’uso e lo spazio domestico, sentimentale, di chi li ha posseduti, inseguendo in queste atmosfere la memoria della propria storia familiare. In questo modo evidenza la permanenza dei segni e dei costumi di un piccolo mondo antico che è comune a tre generazioni di italiani dal secondo dopoguerra in poi: non un panorama di rovine, nonostante la nostalgia che percorre tutto il lavoro, ma una testimonianza vivace, vitale, che attraverso l’elegia del Novecento continua a descrivere la cultura sociale di oggi.

Flavio Favelli, Eldorado, 2020, assemblaggio di mobili e specchi, smalto, cm 319x347x294. Foto Serge Domingie © Flavio Favelli
Flavio Favelli, Grande Guardaroba, 2020, assemblaggio di mobili e specchi, smalto, cm 303x278x263. Foto Serge Domingie © Flavio Favelli (dettaglio)
Flavio Favelli, National Office, 2020, assemblaggio di insegna trovata, misure ambiente. Foto Serge Domingie © Flavio Favelli

GP: L’elemento dell’oro, presente nel titolo, risulta essere presente non come materiale, ma come copertura, come strato che ricopre, una sorta di patina che tenta di dissimulare la vera natura economica degli oggetti. Un effetto illusorio dell’apparenza che il cinema – penso ai film di Alberto Sordi e Dino Risi, ma anche agli episodi di Vacanze di Natale – forse meglio di qualsiasi altro linguaggio è stato capace di mettere in scena e a nudo con amara ironia…

PG: Favelli mette in scena una storia sociale d’Italia insolita da raccontare e lo fa dagli interni borghesi, dove la cultura del boom economico si è distribuita in modo più uniforme, fungendo assieme alla televisione da vero collante nazionale. Nei centri urbani, nelle periferie, nella provincia, i nostri nonni e i nostri genitori hanno coltivato il sogno italiano per difendere il proprio status, conquistato con il lavoro e dimostrato con i simboli del benessere, prediligendo l’illusorietà dell’apparenza in luogo dell’autenticità della sostanza. Ecco perché la mostra pone al centro l’oro: è un materiale presente come patina, finzione, rivestimento banale (sui mobili, sulle scatole di latta, sui monili) che connette gli anni Cinquanta allo yuppismo, la fiducia ingenua dei primi con l’ostentazione velleitaria dei secondi. Il vero oro, quello profondo appunto, si trova invece nei resti di tutto questo, nella loro capacità narrativa, nelle vite nascoste, immerse nei vecchi specchi raschiati, nell’avventura industriale e del design, nella ricchezza di una vita condivisa che ha molti strati e ancora molte risorse.

GP: Altro elemento caratterizzante della poetica di Favelli, e ancora una volta ben visibile in questo progetto, è la sua predilezione per l’accumulo, per un atteggiamento archivistico nel quale però sembrano saltare tutti i criteri propri dell’archiviazione e della catalogazione. Il risultato sembra essere una sorta di archivio senza tempo nel quale gli anni e le loro trasformazioni si sovrappongono. Si tratta di un’operazione nostalgica?

Favelli sfugge all’impulso archivistico, è un raccoglitore di oggetti e materiali ma non li cataloga, li assembla in nuove combinazioni, li rimette in circolazione. E in tutto questo compie una professione di nostalgia, che ammette senza reticenze, accusando anzi la tendenza contemporanea a eludere la nostalgia, a considerarla un tabù passatista. In Favelli il “dolore per il ritorno” (che è la definizione etimologica di nostalgia) si estende a comprendere tutta l’articolazione che il Novecento ha dato a questo sguardo dolente ma generativo: il desiderare un ritorno di fatto impossibile, visto che si volge a un tempo trascorso e non a un luogo remoto. Ma tutto questo viene espresso attraverso la sintesi dell’arte e, per chi vi assiste, questo archivio senza catalogo diventa uno spazio del possibile, non delle cose perse. È sempre qui e ora che viviamo l’esperienza dell’arte, riempiendo di un senso inaspettato le nostre esistenze. Questo può essere sufficiente a salvarci, quanto meno dalla nostalgia.

GP: Tutte le opere esposte sono inediti realizzati appositamente per questo progetto che vuole unire industria e arte contemporanea. Un’operazione che potrebbe riportare alla mente quella di Giuseppe Verzocchi agli inizi degli anni Cinquanta…

PG: La storia dei legami tra imprenditoria illuminata e committenza artistica, in Italia e non solo, è ricca di episodi. Da tre generazioni la vita della famiglia Gori è avvinta alla passione per l’arte, alle relazioni con gli artisti (con sodalizi che sono andati ben oltre la committenza) e, non ultimo, con la scelta di condividere questa esperienza con il pubblico. Negli anni Ottanta è stata inaugurata la Collezione di Arte Ambientale della Fattoria di Celle, dove la sensibilità contemporanea si innesta nella grazia artificiale del paesaggio toscano in un percorso aperto a chiunque e in modo del tutto gratuito. A questa storia appartiene anche la fondazione della casa editrice Gli Ori e, dallo scorso anno, Arte in Fabbrica, che si è aperta con la mostra personale di Vittorio Corsini. In una certa prospettiva questa nuova operazione riconduce all’origine della vicenda imprenditoriale, collezionistica e culturale dei Gori, e si rivela sia come una restituzione sia come la volontà di portare anche nello spazio di lavoro, con i dipendenti e i clienti, l’esperienza dell’arte.

Per Profondo Oro Flavio Favelli ha realizzato anche un grande dipinto murale, un’opera permanente che occupa oltre centro metri quadri in una delle facciate più visibili della Gori Tessuti e Casa, e questo sembra segnare l’inizio di nuovo nucleo…

Flavio Favelli Profondo Oro
a cura di Pietro Gaglianò
progetto speciale per Arte in Fabbrica Gori Tessuti e Casa, Calenzano (Firenze)
18 settembre 2020 – 28 marzo 2021

Flavio Favelli, Grande Guardaroba, 2020, assemblaggio di mobili e specchi, smalto, cm 303x278x263. Foto Serge Domingie © Flavio Favelli
Flavio Favelli, Eldorado, 2020, assemblaggio di mobili e specchi, smalto, cm 319x347x294. Foto Serge Domingie © Flavio Favelli (dettaglio)
Flavio Favelli, Eldorado, 2020, assemblaggio di mobili e specchi, smalto, cm 319x347x294. Foto Serge Domingie © Flavio Favelli (dettaglio)
Flavio Favelli, Made In Italy, 2020, acrilico su muro cm 950×1200. Foto Serge Domingie © Flavio Favelli
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