Un ritorno a Milano percorre l’opera di Antoni Tàpies, che Galleria Gracis racconta con “Segno|Memoria|Materia”. La mostra, a cura di Luca Massimo Barbero, si sviluppa nelle sale di Palazzo Rusconi Clerici fino al 31 marzo 2023 è verrà completata dalla pubblicazione del catalogo edito da Marsilio Arte.
L’occasione espositiva è felice celebrazione di una doppia ricorrenza: oltre al centenario dalla nascita dell’artista, infatti, si celebra un ritorno milanese dopo “Tàpies Milano” a cura di Guido Ballo, mostra del 1985 che interessò la Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale e una costellazione di gallerie private. La litografia che divenne l’identità visiva dell’evento, posta all’ingresso della galleria, si pone quindi come un raffinato omaggio a Milano e alla sua storia delle mostre.
“Con Burri e con Fontana, Tàpies era il terzo degli altri”. Con queste parole, Luca Massimo Barbero identifica quel protagonismo dell’artista catalano per il quale finalmente la pittura si fa oggetto, e già negli anni Cinquanta. “Un demiurgo della materia” il cui teatro di cose, racconta il curatore, deriva dalla sua formazione a Barcellona, che gli stimola quella progressiva reinterpretazione del modernismo catalano in una Spagna incendiata dal franchismo, e quindi quella volontà di adoperare fisicamente la materia. O forse di scatenarla, di liberarla di un peso: questa attitudine è percepibile dal suo costante confrontarsi con l’impronta, ovvero la traccia di esistenza e di passaggio di un oggetto. Una sorta di “magicismo”, di ritualità che per Tàpies è la concezione di muro come “episodio comunicativo”, come archivio di esistenza, come materia che racconta un silenzioso passaggio di tracce.
In mostra, stupisce di quanto Tàpies sappia porsi come costantemente in trasformazione e come sappia rendere la pittura così profondamente espressiva. Se quel senza titolo in apertura dimostra quanto egli abbia osservato e studiato il mondo graffitistico, è con il capolavoro di molti anni precedente, Vertical sobre blanc (1957) che si definisce quell’impasto a lui tanto caro a base di polvere di marmo, colore e collanti. In quel caso, un’unica linea verticale scandisce la materia e la fa dittico, mentre brevi abrasioni perimetrali lasciano intendere il passaggio di un oggetto in quattro punti alle estremità dell’opera, come lacune di quattro cerniere strappate, ma mai esistite.
Questa estrema economia di composizione è forse motivabile come un tentativo di liberarsi della materia, con lo sforzo quotidiano di misurarsi con quest’ultima. Per citare le sue stesse parole: “…confesso la mia cecità che mi obbliga a volte a una lotta titanica e complessa per arrivare a un risultato estremamente semplice […] questi sforzi sono forse un elemento importante della mia opera. Forse è necessario che i miei sforzi appaiano nel quadro”. In quegli stessi anni, Piero Manzoni tenta di liberare la superficie pittorica con i suoi Achrome e Fontana svela i suoi Tagli.
La mostra prosegue in senso non cronologico, svelando l’intera iperbole “informale internazionale” che l’artista vive dagli anni Cinquanta fino ai giorni nostri. Tale attribuzione stilistica merita i doppi apici, dal momento che questa funzione attributiva è per Tàpies generosa ma altrettanto ambigua e si affolla di interpretazioni, così come le sale si affollano di materia d’impasto, di pennellate serpentine alternate a campi monocromi, di suggestioni arcaistiche. Ogni opera si fa “modellata” e quindi caratterizzata da profondi orli d’ombra in corrispondenza delle variazioni di quota della superficie, attribuendo una forte drammaticità al gesto pittorico, talvolta rasente il primitivo. In pochi passi, ci si trova immersi in quel teatro di apparizioni che mai silenzia la forza dei segni, la cui pratica di amministrazione stupisce per universalità di applicazione. Segni alfabetici e matematici affollano le opere in modo più ora manifesto e ora criptico, disegnando un paesaggio di segnali morfemici che si fanno sonori ma “mai urlati”, sottolinea Barbero. In questo, pur apparendo come pittura d’azione in quanto ingannevolmente legata al gesto, quella di Tàpies è piuttosto una tortuosa e meditata cerimonia del visibile, oltre il visibile. Una cerimonia scandita da un preciso ritmo, più o meno elastico, derivato dal posizionamento di fuochi e bisettrici, da pause e linee di forza di grande valenza compositiva e che fanno di ogni opera un frammento di memoria nello spazio.
Impossibile concludere evitando Joseph Beuys: “Parlare di Antoni Tàpies è come guardare la sabbia desertica che si alza nel cielo tempestoso e, ricadendo con furia, dipinge tutto ciò che trova, di sabbia”.