Con un programma articolato che comprende 12 mostre principali distribuite in sette sedi espositive della città, il festival invita il pubblico a riflettere sul linguaggio fotografico come strumento di interpretazione del mondo. Promosso da Città di Torino, Regione Piemonte e Fondazione Compagnia di San Paolo, e organizzato da Fondazione per la Cultura Torino, Exposed coinvolge musei e gallerie in un dialogo ricco e multidisciplinare, che abbraccia autori affermati e nuove voci della scena internazionale.
A due settimane dall’inaugurazione di EXPOSED è il momento di soffermarsi sui grandi nomi che stanno animando questa seconda edizione e che continueranno a farlo fino al 2 giugno 2025. Il tema di quest’anno, Beneath the Surface, è un invito a guardare sotto la superficie delle cose, a indagare oltre il visibile: una promessa profonda, se fatta proprio da un festival di fotografia, la più fedele al reale tra tutte le arti visive.
Tappa eletta per l’inaugurazione del Festival è l’eccezionale retrospettiva di Carrie Mae Weems presso le Gallerie d’Italia, visitabile dal pubblico dal 17 aprile al 7 settembre 2025. Il titolo dell’esposizione, The Heart of the Matter, pare di per sé già una summa del Credo artistico di Carre Mae Weems: indagare sul “cuore”, con un gioco di parole tra il concetto di “matter” inteso come “cuore della questione” o “cuore della materia”. Una fusione tra i temi più spirituali e quelli più terreni il lavoro di Weems, che per tutta la vita ha indagato su questioni di identità di genere, origini, oscillando tra un concetto tangibile – l’attivismo – e uno più profondo ed astratto – la spiritualità. L’esposizione, composta da oltre cento opere dell’artista, è realizzata in collaborazione con la casa editrice statunitense Aperture e curata da Sarah Meister, in passato curatrice del dipartimento di fotografia del MoMa di New York.
Nella progettualità di Carrie Mae Weems è importante il concetto di “Musa”. L’artista e la curatrice, presenti all’inaugurazione presso le Gallerie d’Italia, tentano in breve di chiarire il concetto di musa nella poetica di Weems. «Una forma femminile più essere oggetto, soggetto, regista. È un’opportunità nella forma di me stessa. Funziona come voce, come soggetto, come possibilità.»
Weems sfrutta il proprio corpo come misura di tutte le cose nei suoi scatti: rappresentata solitamente di spalle, con indosso un lungo abito nero, l’artista si contrappone a grandi facciate dei musei (in The Museum Series, iniziata nel 2006 e ancora in corso) per denunciare le ineguaglianze di genere ed etniche nelle selezioni degli artisti esposti, o all’interno di uffici e set cinematografici (Scenes & Takes, 2016) per esplorare i temi della rappresentazione Nera nei media e del ruolo dell’artista come performer. In altri casi il corpo rappresentato è quello degli altri, il corpo degli affetti: questo accade nella serie Family Pictures and Stories (1981-1982), dove Weems ritrae i suoi amici e familiari in situazioni quotidiane, a volte accompagnandole a una breve descrizione dei soggetti immortalati. Questi testi sono densi di emotività, semplici e familiari come se l’artista stessa sfogliando le pagine di un album di fotografie raccontasse allo spettatore qualche aneddoto carico di nostalgia.
«Alice è la maggiore e in quanto maggiore – quando mamma non era a casa – cucinava il nostro cibo, lavava i nostri vestiti e noi, puliva la casa, quando necessario ci puliva persino il didietro. Lei era un tipo di donna con cui non si scherza, non permetteva a nessuno di fare il furbo con lei per nessuna ragione. E la cosa che mi piace di lei è la sua profonda dedizione alla famiglia. La ragazza farebbe qualsiasi cosa per tenerla insieme. Una tipa tosta.»
Il corpo è soggetto, oggetto, regista e primo attore del lavoro di Carrie Mae Weems. Attraverso il corpo l’artista indaga su temi più universali come la lotta per i diritti civili, ma anche su aspetti intimi della sua esperienza di vita personale, fino a una riflessione profonda sulle proprie radici che la porta, nuovamente, a mettere in luce il grande dramma storico delle discriminazioni dei cittadini afrodiscendenti negli Stati Uniti.
Per committenza originale, in occasione di EXPOSED Carrie Mae Weems realizza ed espone Preach, un progetto fotografico ed installativo che trasforma una delle sale delle Gallerie d’Italia in un’architettura sacra. La serie celebra le forme di culto più profonde, fondendo la storia della Chiesa nera alle lotte per i diritti civili.
«Senza la Chiesa non avremmo avuto i movimenti per i diritti civili degli afrodiscendenti in America. La connessione tra la Chiesa nera e i movimenti per i diritti civili è profonda. Malcom X e Martin hanno iniziato la loro strada nella Chiesa. Hanno continuamente tentato di esplorare sotto la superficie.»
L’esposizione The Heart of the Matter si conclude con l’allestimento di una delle serie più conosciute di Carrie Mae Weems, Kitchen Table Series (1990). Il set di queste scene è sempre lo stesso: un tavolo da cucina. Nel lavoro di Weems seguiamo la vita della protagonista (interpretata dall’artista stessa) nel corso degli anni: un compagno, un marito, una figlia, una separazione, le amiche, la gioia della solitudine che solo una donna ormai adulta riesce ad apprezzare fino in fondo. In questi scatti, naturali e profondamente evocativi, Weems rende Musa una donna con una vita come altre.
«Tutte le persone in questa stanza stanno cercando di capire qualcosa del mondo. Come arriveremo alla fine della giornata, come usare i nostri strumenti per fare ciò che è più significativo per noi. Per me questo viaggio per partecipare all’arte, parte dall’usare la fotografia come strumento per capire chi davvero siamo.»




Il Festival si sposta dalle Gallerie d’Italia all’Accademia Albertina di Belle Arti, designata come quartier generale di EXPOSED, dove è stata realizzata un’esposizione collettiva di cinque artisti dalla pratica e dallo stile molto differenti. Lo spazio è organizzato in modo da accompagnare il visitatore attraverso linguaggi differenti, senza che le opere si sovrappongano o si disturbino a vicenda. Al centro della mostra in una sala dalle pareti circolari sono esposti i lavori del fotografo congolese Georges Senga, che propone Décalquer. Questa raccolta mostra la comunità nippo-congolese del Katanga, la provincia mineraria della repubblica Democratica del Congo. Tra il 1968 e il 1982 i lavoratori della Nippon Mining Company lavorarono come minatori nella regione, vivendo in una condizione di profonda emarginazione ai limiti della prigionia. Interrotti i finanziamenti alla NMC, nel 1983 i minatori giapponesi lasciarono improvvisamente il territorio, abbandonando i propri figli dopo dieci anni di permanenza in Congo. Dècalquer mostra i figli abbandonati da questi minatori, riprendendo lo stile del ritratto Africano in studio, mostrando una comunità dimenticata e portando in primo piano riflessioni importanti sul neocolonialismo. I colori vibranti delle immagini selezionate da Senga contrastano con forza con la carta da zucchero su cui sono stampate le immagini di Gregory Halpern, che con Omaha Sketchbook esplora la vita quotidiana nell’entroterra degli Stati Uniti. Con i soggetti scelti, Halpern vuole esortare lo spettatore a confrontarsi con l’opera e proiettare in ciò che vede le proprie interpretazioni, (perché l’artista le ritrae con occhio molto distaccato quindi esorta lo spettatore a interpretarle).
Running Fast – Senses Off di Lisa Barnard è una riflessione sull’intelligenza artificiale e sull’influenza della tecnologia sulla percezione del reale. Si tratta di un’esposizione antologica di tre progetti – Whiplash Transition, Virtual Iraq e YOLO – che affrontano diversi temi, da quello della disumanizzazione generata dagli schermi nel discorso bellico, a un’esplorazione dei sensi umani e dei cambiamenti climatici. Filo conduttore dei corpus, un’altra volta, la tecnologia. Gli scatti di Barnard, quasi sempre volutamente sovraesposti, dipingono una realtà attuale con tonalità nostalgiche. Guardando alcune immagini di città in cui la presenza umana sembra essere totalmente assente, sembra di osservare le metropoli di un distopico futuro dove l’Essere Umano non c’è più, ma inspiegabilmente al posto del caos regnano l’ordine, la desolazione e il silenzio di uno spazio divorato dal cemento.
Silvia Rosi – prima selezionata al C/O Berlin Talent Award 2024 – e Valeria Cherchi – vincitrice dell’avviso pubblico Strategia Fotografia 2024 – esplorano se stesse con due linee direttrici opposte. Rosi è proiettata all’indietro, verso le proprie radici, e con lo stile della fotografia africana in studio riporta in vita usando sé stessa come soggetto alcuni scatti raffiguranti la madre, esplorando con Disintegrata i temi della diaspora familiare e dello sradicamento. Anche Valeria Cherchi parte dal passato con il progetto RE:Birth. La sua storia familiare, segnata dalla tragica perdita della sorella maggiore (omonima dell’artista stessa), esplora il terribile mondo della violenza ostetricia e ginecologica. Una piccola immagine della tomba della sorella apre la mostra. Il nome dell’artista, accostato all’immagine della tomba della sorella, genera un cortocircuito visivo ed emotivo che rende immediatamente palpabile la profondità del trauma. Cherchi si sposta poi dalla sua storia personale verso l’esterno, volendo portare le testimonianze di donne e doule che parlano della violenza. L’operazione fotografica di Valeria Cherchi è strettamente legata ad una forte ricerca archivistica, ed invita a una riflessione critica sugli eventi raccontati, denunciando storie di negligenza ed oppressione.
Merita di avere spazio il progetto Not Bad Intentions. Attempts to Coexist, il progetto del fotografo taiwanese Sheng-Wen Lo in collaborazione con FOTODOK e curato da Daria Tuminas, che offre una visione critica nei confronti di molte pratiche considerate green e rivelatesi poi nocive per la natura. Più suggestivo fra tutti i temi quello dell’alghicoltura, ossia la coltivazione di macroalghe che, crescendo, assorbono anidride carbonica. La laminaria, essendo tra le alghe con la crescita più rapida, è molto efficiente per assorbire CO2 e convertirlo in ossigeno. L’installazione multimediale Matter of Scale presenta questa pratica, mettendone però in luce la coltivazione intensiva che, pur essendo celebrata come scelta green in Occidente, è già responsabile di alterazioni sistemiche degli oceani dell’Asia orientale. In un corridoio attraversato da reti e installazioni che evocano la forma delle alghe, il percorso dei visitatori è rallentato, quasi ostacolato, come accade nei mari invasi da queste coltivazioni intensive.Sul pavimento sul pavimento articoli web e video Youtube che mostrano i danni dell’alghicoltura su larga scala, con vere e proprie invasioni di alghe delle coste dell’Asia Orientale. La scelta di proiettare immagini e materiali amatoriali, così come la storia che Lo racconta come “pretesto” dell’inizio della sua ricerca: «Nel 2021, l’algoritmo di Youtube ha suggerito che dovessi diventare un coltivatore di alghe: così, ho provato a diventarne uno», offrono una rappresentazione ironica della presunzione umana di conoscere tutto grazie alla tecnologia, che invece spesso restituisce solo una visione frammentaria e distorta della realtà.





Presso CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, Olga Cafiero sperimenta nel mondo fotografico concentrandosi con le tecniche di stampa ed impressione con Cultus Langarum: esponendo alla luce naturale delle lattine forate con all’interno della carta fotosensibile, Cafiero imprime nel modo più realistico (con il risultato più astratto) l’ecosistema delle Langhe del Barolo, territorio che l’artista indaga dal punto di vista morfologico (come in questo caso) e storico con cinque serie fotografiche. In un altro progetto dal sapore archivistico, Olga Cafiero immortala anfore dell’età imperiale romana usate per trasportare il vino che sono state rinvenute sul territorio delle Langhe servendosi dell’antotipia, processo fotografico che sfrutta la fotosensibilità di elementi naturali per produrre immagini. In questo caso Cafiero si serve proprio del vino, per creare un legame tra soggetto e strumento usato per catturarne l’immagine, tra contenitore (l’anfora) e contenuto (il vino).
Alle OGR Torino, Almost Real. From Trace to Simulation esplora il confine tra fotografia ed intelligenza artificiale. La collettiva, curata da Samuele Piazza e Salvatore Vitale, vede esposti i lavori di Alan Butler, Nora Al-Badri e Lawrence Lek.
Butler con la serie Virtual Botany Cyanotypes sfrutta la sperimentazione fotografica. Grazie alla cianotipia, crea rappresentazioni floreali molto diverse tra loro: l’impronta di un mazzo di rose, una pagina di un libro di botanica, o la stilizzazione astratta di un cactus, quasi ridotto a pixel. In questo passaggio la fotografia, che nasce come riproduzione in due dimensioni del reale, diventa una pratica artistica assimilabile alla pittura, con la capacità unica di creare dall’impressione della realtà.
Nora Al-Badri attraverso i progetti The Post-Truth Museum e Babylonian Vision sviluppa un’intelligenza artificiale capace di assimilare migliaia di immagini di reperti mesopotamici. Il risultato è una serie di oggetti inediti, fuori dal tempo e dallo spazio, che non appartengono a nulla. Un’altra volta le immagini fotografiche – in combinazione ora con la tecnologia – creano una realtà Nuova. Il lavoro di Al- Badri solleva inoltre un quesito più ampio: chi detiene il controllo della memoria se l’Intelligenza Artificiale è in grado di creare una Storia nuova ma totalmente inventata? Quanto la realtà diventa manipolabile se elaborata dalla tecnologia?
Lo short film Empty Rider (2024) di Lawrence Lek ipotizza un futuro in cui l’intelligenza artificiale diventa un’entità messa sotto accusa. Al centro della storia si trova un’auto a guida autonoma dotata di coscienza, coinvolta in un processo per aver tentato di uccidere il proprio creatore. Il film, ambientato in uno scenario distopico, oscilla tra il thriller e la dissertazione filosofica, mettendo in discussione i limiti dell’autonomia artificiale e le responsabilità morali che l’uomo inevitabilmente proietta sulle macchine.
Infine, la GAM di Torino ospita la mostra Once Upon a Time in the Jungle del fotografo boliviano River Claure, a cura di Menno Liauw e Salvatore Vitale. Il progetto fotografico e video di Claure nasce grazie ad un viaggio in canoa di 377 chilometri attraverso l’Amazzonia, in cui l’artista racconta con le immagini un’umanità variegata: soldati, rappers, capi delle comunità, bambini e anziani indigeni. Grazie alla collaborazione con i soggetti rappresentati in foto, ma soprattutto tramite i video, River Claure rimette in scena con ironia la storia della conquista del West, portando in luce grazie ad un racconto stereotipato l’operazione di colonizzazione dell’Occidente. Nel lavoro di Claure non c’è solo questo: si tratta di una critica allo sfruttamento ambientale del territorio, una denuncia all’evangelizzazione forzata dei territori del Sud America ma soprattutto di un’esaltazione del mito come forma di resistenza al capitalismo e alla globalizzazione culturale.
EXPOSED Torino Foto Festival 2025 si conferma come un mosaico di voci, visioni e urgenze, un atlante sensibile dove ogni opera diventa un punto d’accesso al mondo e al tempo in cui viviamo. Beneath the Surface non è soltanto il titolo di questa seconda edizione, ma un invito costante: a scavare nei significati, a guardare oltre l’apparenza, a lasciarsi interrogare dalle immagini. La fotografia, nelle mani di questi artisti, diventa strumento critico e poetico, specchio del presente e finestra aperta su realtà spesso invisibili.
Durante l’inaugurazione del 16 aprile, il direttore del Giornale dell’Arte Luca Zuccala ha fatto un’importante domanda a Carrie Mae Weems: «Cosa ti spinge ancora dopo tutti questi anni?»
«La speranza. La speranza, la fame e il mistero. La fotografia ha questa straordinaria capacità e unica forza di espressione che non esiste in nessun altra forma d’arte. È l’unico strumento che abbiamo per farci sentire come se stessimo guardando una possibilità di noi stessi nella forma più diretta. Queste sono la bellezza e il potere della fotografia.»
Cover: Sheng- Wen Lo, Archivio Di Stato – Trollkjeldene, 18km hike, near the Mars rovers testing site. Oct. 9th, 2017. 79.39°N, 13.44°E


