La mostra Everyday Life. Economia globale e immagine contemporanea a cura di Gabriele Lorenzoni e Carlo Sala (31 maggio – 1 settembre 2019) alla Galleria Civica di Trento parte dal macro-tema del Festival dell’Economia di quest’anno, conclusosi in città il 2 giugno: globalizzazione, nazionalismo e rappresentanza.
Tre tematiche amplissime e interconnesse: astratte – se si prendono come concetti filosofico-politici a sé – e invece assolutamente quotidiane e concrete – se ci mettiamo a ragionare sulle dinamiche <economiche e politiche che sottendono e influenzano le più comuni scelte quotidiane, dall’acquisto online al voto delle recenti elezioni europee, dall’emergenza migranti alle soluzioni populiste-sovraniste del governo del Belpaese ecc.ecc.
Gabriele Lorenzoni, che incontro poco dopo l’inaugurazione della mostra, mi accompagna per le sale raccontandomi che questi temi hanno suscitato nei curatori riflessioni e domande: se il discorso “globalizzazione” sembra essere generico e onnicomprensivo, tanto che il globale “abbraccia non solo qualsiasi prodotto del sistema dell’arte contemporanea ma anche qualsiasi prodotto di design o quello che indossiamo o compriamo quotidianamente nella vita su Amazon o Zalando”, come si pone il lavoro dell’artista in questo contesto senza volerlo illustrare o narrare in modo pedissequo? D’altra parte, la globalizzazione non è una tematica che si può studiare con il “distacco del poi” ma incide continuamente sulla vita quotidiana, sia nell’ambito economico che nell’ambito estetico e di produzione delle immagini: di qui il titolo della mostra. E ancora, i curatori si sono indirizzati all’indagine della fotografia contemporanea perché è il medium che assorbe più facilmente i cambiamenti della realtà, producendola allo stesso tempo.
“Per cui” dice Lorenzoni “si è voluto lavorare sul medium fotografico e su quegli artisti che sono riusciti a staccarsi dalla tradizione dove, soprattutto in Italia e fino agli anni Novanta, prevaleva il genere: il ritratto, il paesaggio, la fotografia di moda…Ecco che dal 2000 in poi, invece, la ricerca si è spostata verso la post-fotografia o la fotografia espansa: sono emersi così molti artisti che lavorano intorno al mondo di internet (come archivio e produttore di immagini), sui motori di ricerca, sull’open source, portando spesso la fotografia a uscire dai propri confini, verso l’installazione o il linguaggio video.” Si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale che ha portato gli artisti, pur nelle differenze stilistiche, a creare relazioni, esperienze e narrazioni nuove.
Sembra un paradosso che la mostra inizi con il lavoro Tergiscristallino (No show device), 2016 di Giovanni Morbin, un’opera totalmente aniconica posta all’ingresso delle sale: un lavoro che, pur nell’estetica industriale e minimalista, conserva la funzione di struttura e che concettualmente spazza lo spazio espositivo – sono dei cancelli che si aprono e chiudono senza posa. Il termine cristallino fa poi riferimento a una parte dell’occhio e quindi alla funzione di ripulirlo, per liberarlo dal fenomeno della globalizzazione estetica, in cui si è completamente inglobati. Da qui, si vede a parete il lavoro EU, 2018 di Paolo Ciregia: la fotografia di una moneta che è un errore di conio della Zecca Centrale Europea, illegalmente trafugato, che allude a un “dark side of the moon” dell’unità europea e allo spappolamento dei suoi equilibri.
A questo punto, il percorso fa un passo indietro, con i prodromi dell’estremizzazione dei fenomeni di globalizzazione che viviamo attualmente. Sono stati scelti dai curatori quattro lavori fotografici dalle Collezioni del Mart che mettono in luce alcuni aspetti dell’oggi: Shirin Neshat con uno scatto da Rapture Series, 1999 a indagare la questione di genere e la questione islamica, il mitico Wolfgang Tillmans conChris Supermarket, 1990 che discute la questione giovanile, i valori del commercio, l’ipertrofia dei prodotti e del loro mercato, Fischli & Weiss con Airport, 1990 che anticipa le discussioni attuali sull’iperutilizzo dei trasporti aerei oltre che ragionare sul concetto di non luogo; infine, la fotografia oggettiva di Andreas Gursky, La Defense, 1987-1993 – già ospite dell’immersiva mostra Perduti nel paesaggio/Lost in landscape (Mart 2014).
Il tutto, impastato e allestito su un wall paper prodotto per la mostra da Alessandro Calabrese dal ciclo A failed entertainment, 2012-2019, il quale ha studiato un algoritmo che ha fuso insieme i colori principali delle quattro foto delle Collezioni Mart con immagini prese dalla rete, creando un’immagine nuova contemporanea che ingloba, nel suo buio centrale e nella con-fusione mimetica, gli anni Novanta, metaforicamente parlando.
Divertente, assurdo e lucidissimo nell’analisi del rapporto tra giovani generazioni e aspettative di vita, mondo del lavoro-economia-successo, impegno politico: è l’opera dell’altoatesina Ingrid Hora, Devices to Position People in a Form of Protest, 2005-2019 che mescola linguaggio performativo e installativo. L’artista parte dall’osservazione in Cina della generazione dei cosiddetti “piccoli imperatori”, i figli unici su cui pesa la responsabilità di fare economia e spingere il paese al progresso, quella generazione che ha perso il tempo e il desiderio di avere un certo tipo di partecipazione alla società e alle cose della politica: l’artista ha creato una serie di strumenti (devices) che permettono ai giovani di protestare senza far fatica, li mette in mostra e li documenta con degli scatti.
Attorno al concetto di confine e alla sua arbitrarietà e instabilità è presente poi una serie di opere: Benvenuti in Africa, 2012 di Hannes Egger che ha remixato per la Galleria Civica un lavoro di alcuni anni fa. Documentando in Val Camonica l’incontro della placca europea e della placca africana, ha imposto un confine teorico tra Europa e Africa, mettendosi dunque a fotografare le auto che passavano di lì e dimostrando la facilità di passare da un continente all’altro.
Con Ecce Homo, 2009, Brigitte Niedermaier crea dei ritratti fotografici dell’icona pop più famosa del mondo della preistoria: un uomo che ancora prima del concetto di confine politico, attraversava con scioltezza il territorio italiano e austriaco senza bisogno di passaporto: Ötzi. “La mummia del Similaun”, mi ricorda Lorenzoni, “muore sul ghiacciaio che fa da confine attuale tra Austria e Italia e dunque è stato vittima di una contestazione sull’appartenenza nazionale e dopo esser stato a Innsbruck per un po’, è infine tornato a riposare a Bolzano (Museo Archeologico dell’Alto-Adige)”. Daniele Girardi, autore veronese, propone un’esperienza di cammino e di appropriazione fisica di luoghi naturali come le Alpi o la Scandinavia, ricordando molto da vicino la pratica del walking che ha inaugurato negli anni Settanta l’artista Hamish Fulton. Girardi fotografa con la vecchia macchina usa e getta – “che non consente post-produzione, non consente la verifica immediata di quello che hai fatto e crea un distacco temporale tra lo scatto e il suo sviluppo” – il paesaggio che attraversa e i confini naturali che incontra.
Un altro confine naturale che appare e scompare – e sul quale non si può mai tornare, sia fisicamente che concettualmente – è quello della battigia, che i performer di Filippo Berta seguono sulla spiaggia andando a stare, come recita il titolo del lavoro, Sulla retta via, senza trovarla davvero.
Bandiera e confine sono i termini che vengono alla mente quando si osservano gli eleganti drappi di Nicolò de Giorgis in mostra: una selezione di fotografie di migranti scelti tramite la ricerca immagini di Google, che sono poi state trasformate in texture per stampe su tessuto. La questione dell’appartenenza ritorna con Filippo Minelli, ospite di Centrale Fies l’anno scorso per Drodesera con un talk e un lavoro nel paesaggio droato nonché ospite di Manifesta a Palermo per cui produce il lavoro esposto in Civica: Across the border, 2018: ha chiesto a 25 persone di creare delle bandiere che le rappresentassero, al di là della bandiera nazionale ufficiale. Esteticamente impeccabile e accattivante l’estetica “sporca” della fotografia Untitled, 2013 di Dido Fontana che gioca allestendo una scena vagamente macabra, volutamente contradditoria, molto sensuale.
The Cool Couple – il duo composto da Niccolò Benetton (1986) e Simone Santilli (1987) di base a Milano – crea con Approximation to the West, 2013-2016 una serie di immagini che sono un mash-up stilistico e concettuale: un anaglifo, una classica foto di moda, una tipica foto di paesaggio che rompono la continuità della tradizione artistica del nostro mondo e che prendono a prestito dalla storia recente, gesti, tic e atteggiamenti: il saluto nazista modaiolo suona così paurosamente contemporaneo.
Il progetto Aura, 2017-2019 è un’idea di Discipula – collettivo operativo nel campo della ricerca visiva fondato da MFG Paltrinieri, Mirko Smerdel e Tommaso Tanini nel 2013 – che ha inventato una finta società che va a sostituire lo stato nel welfare, la sanità, l’intrattenimento e “per farlo bene conosce i tuoi gusti, sa cosa fai e sa cosa ti piace”: sono fotografie di tabelloni pubblicitari affittati a Milano su cui sono scritti messaggi sottilmente inquietanti. Aura ha creato anche un ufficio fittizio per un ramo della società chiamato Morpheus e specializzato nei sogni: lo spettatore può compilare un questionario su un tablet in cui si raccontano i sogni che verranno poi trasformati in film.
L’opera che chiude idealmente il percorso, riassumendolo, è The Column, 2013: un lavoro video di Adrian Paci che si focalizza sugli aspetti produttivi e commerciali nel mondo globale. L’artista scopre che alcune ditte giapponesi abbattono i tempi e i costi di produzione facendo lavorare le merci direttamente nel trasporto transoceanico da un luogo all’altro. Nell’opera filma un grande blocco di marmo lavorato da decine di artigiani che scolpiscono la roccia rendendola colonna, a riprendere la tradizione della scultura occidentale: una tradizione scultorea che è così sottoposta a un processo di distorsione, velocizzazione e mercificazione ipertrofica.