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Eva & Franco Mattes. Most to Least Viewed | FMAV, Modena

Nell’era delle grandi corporation e dei social media, lo spazio della Rete è stato sottoposto anno dopo anno a controlli sempre più stringenti in nome della tutela dell’esperienza degli utenti. Sempre meno spazio è stato concesso ad utilizzi più liberi ed anarchici di Internet, ricavati negli interstizi di un tessuto virtuale in cui la privacy […]

Eva & Franco Mattes – Most to Least Viewed – ph ©Melania Dalle Grave e Agnese Bedini, DSL Studio

Nell’era delle grandi corporation e dei social media, lo spazio della Rete è stato sottoposto anno dopo anno a controlli sempre più stringenti in nome della tutela dell’esperienza degli utenti. Sempre meno spazio è stato concesso ad utilizzi più liberi ed anarchici di Internet, ricavati negli interstizi di un tessuto virtuale in cui la privacy è sacrificata alla profilazione a fini commerciali. Eva & Franco Mattes (entrambi nati nel 1976) si muovono in questi interstizi da quando, negli anni Novanta, la loro identità era celata dietro al sito 0100101110101101.org: uno strumento per sferrare attacchi provocatori al mondo dell’arte e mettere a nudo le dinamiche di potere esercitate subdolamente dalle istituzioni tramite i propri spazi virtuali. Nel corso degli anni hanno cominciato a riflettere anche sull’enorme influenza che i social network stanno avendo in modo sempre più pervasivo nelle dinamiche sociali; un tema che ritorna nella loro prima personale italiana, Most to Least Viewed, curata da Nadim Samman e ospitata fino al 26 febbraio 2023 nella sede di Palazzo Santa Margherita della Fondazione Modena Arti Visive (FMAV). I lavori proposti, tutti di produzione recente, si estendono in sequenza nella Sala Grande del palazzo secondo un ordine di allestimento che, come suggerisce il titolo scelto per la mostra (“dal più visto al meno visto”), rispecchia il numero di visualizzazioni che hanno ricevuto sulle pagine social degli artisti nell’arco degli ultimi dodici mesi. Non è dato sapere per quale motivo un’opera ha avuto più successo di un’altra: i meccanismi alla base degli algoritmi impiegati dai social network sono sconosciuti e in nessun modo è garantito il fatto che il numero di visualizzazioni sia un riflesso genuino dei gusti e degli interessi del pubblico, ma i Mattes decidono di assecondare la volontà della Rete, che così compartecipa alla curatela della mostra.

Le opere sono collocate su una lunga piattaforma flottante che allude ai pavimenti rialzati che si trovano nei data center, sotto a cui corrono i fasci di cavi che trasportano i dati. La pavimentazione prende il nome di Monumento Connettivo (2022), in omaggio al progetto utopico del Monumento Continuo (1969) di Superstudio, che ipotizzava immense strutture reticolate bianche e sviluppate lungo i meridiani terrestri da un polo all’altro, fino ad espandersi in una Supersuperficie globale totalmente uniforme. Proprio come nell’utopia di Superstudio, anche la striscia di pavimento dei Mattes è composta da moduli quadrati bianchi; inoltre, i peducci perimetrali sono lasciati parzialmente a vista, implicando la possibilità di ampliare la striscia anche lateralmente in future occasioni espositive. A distanza di cinquant’anni dal ripensamento radicale dei principii cardine dell’architettura operato dal gruppo di architetti toscano, quell’utopia apparentemente irrealizzabile ha avuto esito nell’interconnessione globale tra tutti gli individui, garantita dall’architettura virtuale della Rete e dalla sua controparte estremamente materiale, ma celata agli occhi degli utenti, delle infrastrutture che la rendono possibile. 

Eva & Franco Mattes – Most to Least Viewed – ph ©Melania Dalle Grave e Agnese Bedini, DSL Studio

La sala è attraversata per tutta la sua estensione da Untitled (Yellow Tray) (2021), una canalina portacavi color giallo zolfo che porta l’alimentazione elettrica e il flusso di dati alle opere collocate sulla piattaforma. Anche in questo caso si tratta di un elemento tipico dei data center, ma invece di nascondersi alla vista si palesa come una scultura sospesa nello spazio che sin dall’accesso alla sala condiziona il movimento del visitatore, come metafora della subdola influenza esercitata dal web nella vita quotidiana. Le numerose cavità presenti su di essa lasciano presagire future diramazioni.

Le prime opere allestite sulla piattaforma sono tre video della serie The Bots (2020), apparentemente dei make-up tutorial che in realtà celano estratti di interviste, condotte col supporto del giornalista investigativo Adrian Chen, a persone impiegate come moderatori di contenuti negli uffici berlinesi di Facebook, che hanno rivelato informazioni riservate sulle linee guida fornite dall’azienda per svolgere il loro lavoro. Contrariamente a quanto pensa la maggioranza degli utenti, la moderazione non è condotta da macchine e algoritmi automatizzati, bensì da impiegati che eliminano i contenuti in cui sono presenti pornografia, violenza o incitamento all’odio, così come il trucco nasconde le imperfezioni. Gli attori che impersonano gli intervistati inframmezzano le indicazioni su come applicare i vari prodotti di bellezza a commenti sul lavoro di moderazione, evidenziando ad esempio quanto le rigide linee guida fornite dall’azienda appaiano talvolta insensate e controverse, perché tarate sul diritto statunitense e per questo non adatte a valutare l’adeguatezza di immagini e video che siano espressione di culture differenti. Il format scelto per i video, oltre a giocare sul contrasto rispetto al racconto delle atrocità che inevitabilmente gli intervistati sono stati costretti a vedere, allude ad una pratica diffusa in molti Paesi in cui la libertà di espressione non è garantita: in quei contesti, infatti, si sfruttano video di make-up per aggirare la censura ed esprimere dissenso, cosicché proprio i moderatori dei social network siano tratti in inganno. I tre video esposti sono dedicati a tre diversi “mercati” (greco, italiano e arabo) e sono installati ognuno sul retro di una diversa scrivania, di modello conforme a quelli effettivamente usati negli uffici di Facebook. 

Subito accanto colpisce la presenza di un gatto nero in tassidermia, con gli occhi spalancati dalla sorpresa, seduto su una catasta di microonde, al cui interno si vedono degli hard drive. What Has Been Seen (2017) allude al noto meme diffuso su Internet che associa proprio l’immagine di un gatto simile alla frase “what has been seen cannot be unseen”, che si può tradurre in “impossibile dimenticare ciò che si è visto”. L’originale contenuto degli hard drive, che tanto ha spaventato il gatto, rimarrà un mistero, dato che sono stati sottoposti ad una formattazione totale, seguendo la credenza diffusa sul web (ma priva di fondamento scientifico) che l’unico modo per eliminare totalmente i dati da un supporto di memorizzazione sia friggerlo in un microonde. Il tema di fondo è l’impossibilità di veder riconosciuto il proprio diritto all’oblio nella società dell’informazione: la vita di ogni utente è monitorata e profilata al punto che è impossibile cancellare del tutto la propria presenza dalla Rete.

Nella scansione “dal più visto al meno visto” segue Abuse Standard Violations (2016): dei pannelli composti da materiali isolanti accostati sui cui lati si possono leggere delle linee guida per la moderazione adottate da alcune aziende, di cui gli artisti sono venuti a conoscenza grazie ad informatori interni. Da una parte si indica ciò che può essere ritenuto accettabile, mentre sul lato opposto sono indicati i contenuti da segnalare in quanto inappropriati. Tra questi, accanto ai più ovvi “nudità”, “violenza” e “attività illegali”, spicca la presenza di temi come “religione”, “questioni sociali controverse” e “contenuti in lingue differenti dall’inglese”, aspetti che fanno presupporre criteri non etici nella valutazione dell’adeguatezza dei contenuti. La scelta dei materiali dei pannelli allude all’operazione di filtraggio operata dai moderatori per rendere sicura, ma allo stesso tempo artificiosamente ovattata, l’esperienza dell’utente finale.

Al termine della piattaforma si colloca Untitled (Server) (2022), una gabbia imponente al cui interno si trova un server connesso con la rete aperta, il quale condivide su una piattaforma peer-to-peer un lavoro video tramite torrent. Non essendo presenti periferiche di output, il visitatore non ha modo di fruire direttamente dell’opera, che passa in secondo piano. I contenuti audiovisivi che, nell’esperienza quotidiana, confluiscono e si aggregano nei feed dei social network sono memorizzati in banche dati remote, la cui ubicazione geografica è ignota all’utente; mai era successo finora nella storia delle immagini che queste fossero a tal punto separate e allontanate dal loro supporto. In questo caso, è la periferica di memorizzazione ad offrirsi allo sguardo in tutta la sua grezza monumentalità, mentre il video in essa contenuto è confinato in uno spazio virtuale che ora appare tanto remoto quanto i data center che conservano le foto che vediamo ogni giorno sui nostri device. 

La mostra si chiude con Circuits (2022), due canaline portacavi che si adattano agli angoli delle pareti in fondo alla sala; ciascuna ospita due microcomputer che trasferiscono incessantemente l’uno verso l’altro una serie di fotografie scattate dagli artisti. Trattandosi di sistemi a circuito chiuso, in nessun modo è possibile accedere al flusso di dati per convertirli in immagini, che dunque mai più si offriranno allo sguardo in quanto tali. Questi universi digitali isolati fanno riflettere sul fatto che, nella società contemporanea, la gran parte dell’enorme mole di immagini che vengono prodotte ogni giorno è destinata a rimanere per sempre nello stato di sequenze di bit, che possono essere al massimo visualizzate temporaneamente su di un monitor per poi tornare sopite. Esempio lampante, questo, della tendenza alla smaterializzazione (e, di conseguenza, della perdita di certezze) a cui la società dell’informazione sta andando incontro, e che Eva & Franco Mattes denunciano nella loro ricerca, per rendere manifesti i cambiamenti irreversibili che stanno avvenendo, spesso insospettati, nella vita di tutti.

Eva & Franco Mattes – Most to Least Viewed – ph ©Melania Dalle Grave e Agnese Bedini, DSL Studio