Al Prado è custodito un Rembrandt raffigurante Giuditta al banchetto di Oloferne, in una narrazione della vicenda biblica inedita e assolutamente originale. La donna al centro della composizione siede imponente con un abito sontuoso ornato da un collo di ermellino, due fili di perle e una catena d’oro al collo, segni di nobiltà. Con lo sguardo fiero e una mano sul petto, la donna è catturata nel gesto di offrire se stessa a Oloferne come strumento di conquista del suo popolo. Pare che Rembrandt non si fosse servito di una modella e che la Giuditta dipinta sia un’idealizzazione, un prototipo.
La rappresentazione che dà Rembrandt dell’eroina biblica è il punto di partenza dell’intervento Tra Verità e menzogna: le “muse inquietanti” di Chiara Fumai con cui Milovan Farronato, direttore del Fiorucci Art Trust e futuro curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, prende parte al ciclo di incontri relativi alla retrospettiva di Nalini Malani, curata da Marcella Beccaria, La rivolta dei morti, al Castello di Rivoli fino al 6 Gennaio. Farronato ripercorre la vicenda della donna ritratta che prima di essere riconosciuta come Giuditta s’è creduto potesse essere la regina Artemisia colta nel gesto di bere le ceneri del defunto marito Mausolo, nel tentativo di farsi essa stessa tomba vivente. Ma non s’è escluso potesse trattarsi della nobile cartaginese Sofonisba che pur di non finire prigioniera e schiava dei romani cercò la morte bevendo una coppa di veleno.
La galleria di eroine evocate da Farronato prosegue con Ginevra Bellini, figlia del pittore, ritratta all’interno della sua Presentazione al tempio come la sola figura il cui sguardo è rivolto fuori campo. La donna conduce infine al lavoro di Chiara Fumai che nella sua performance I Did Not Say or Mean “Warning” (2013), aveva definito la figura spettrale. Il dipinto era uno dei pezzi coinvolti nella narrazione che l’artista ha costruito in forma di visita guidata alla collezione della Fondazione Querini Stampalia. La spiegazione canonica veniva violentemente interrotta dal messaggio lasciato da un’ignota terrorista nella segreteria della sezione femminista di un gruppo impegnato nella lotta armata nell’Italia degli anni 70. Il testo, performato nella lingua italiana dei segni, violento nella gestualità e nei contenuti, era una riflessione sull’espressione della rabbia su un piano verbale e concettuale. Attraverso il linguaggio muto, l’artista è riuscita a dare voce all’indicibile, dando una rappresentazione del silenzio che era quello delle donne oggetto dei dipinti della collezione.
Farronato ribalta il rapporto tra Chiara Fumai e le sue muse ricordando come sia stata essa stessa musa, dipinta da Paulina Olowska in The She-Ornitologist, un olio su tela del 2018. Le due artiste si sono sostenute nella realizzazione di performance e hanno preso parte l’una alle performance dell’altra, condividendo un interesse vivo per la storia del culto, per la cultura ermetica, e per la stregoneria. Stregoneria che Farronato riprende in chiave più pop attraverso l’immagine cult di Kim Novak nel film Bell Book and Candel, la storia di una donna indipendente che decide di sedurre il compagno di una vecchia rivale servendosi dei propri poteri a cui alla fine è costretta a rinunciare, per poter avere con l’uomo conquistato una vita normata di moglie e madre. Più sofisticate le streghe evocate da Chiara Fumai nella performance con cui ha preso parte a dOCUMENTA(13) The Moral Exhibition House, due muse, amiche e sorelle elettive. Si tratta di Annie Jones conosciuta come la prima donna barbuta diventata fenomeno da baraccone che nella performance leggeva delle lettere d’amore indirizzate a lei. L’altra era Zalumma Agra chiamata stella dell’est, esempio di razza pura perché dalla pelle bianchissima e dai capelli afro, che nel lavoro di Chiara Fumai diventava divulgatrice del manifesto di Rivolta Femminile del ‘77.
La galleria di sorelle di Chiara Fumai si chiude con la proiezione di Per Vas Nefandum, video in cui l’artista, in preda a una possessione demoniaca, veste ironicamente i panni di una predicatrice evangelica che annuncia il nefandum, l’indicibile, l’improprio, e tutto ciò che va contro i precetti di Dio: l’avvento dell’omosessualità, di satana, della prostituta di Babilonia. Una proliferazione di immagini stratificate e instabili, in cui la performer appare fulminea su uno sfondo galattico da cui viene ripetutamente riassorbita.
L’intervento s’è concluso con un contributo di Carolyn Christov Bakargiev che ha dato una lettura riabilitante della Medea di Euripide, a partire dalla interpretazione in chiave femminista della scrittrice dissidente della Germania est Christa Wolf. Nel suo Medea. Voices (1996) ha costruito una versione in cui non è Medea a uccidere i figli ma la folla dei greci che li considerava impuri, ibridi, in quanto figli di madre straniera. La folla è assassina e Medea è una donna indipendente che disprezza la corruzione dei Corinti e ne diventa il capro espiatorio. È una Medea che “non ha bisogno del nostro dubitare del nostro sforzo per fare giustizia. E noi dobbiamo avventurarci nel nucleo più oscuro del nostro giudizio errato su di lei e su noi stessi, e semplicemente entrarvi insieme uno di seguito all’altro mentre lo schianto delle mura che crollano risuona nelle nostre orecchie”, aggiunge Bakargiev leggendone un brano.
In Mothers: An Essay on Love and Cruelty (2018) Jacqueline Rose celebra Christa Wolf ragionando su Medea come esempio di ciò che accade quando una donna viene ritenuta responsabile di tutti i mali del mondo, perché l’odio verso la madre è il cuore della cultura occidentale. La maternità nella nostra cultura è il luogo nel quale seppelliamo i nostri conflitti psichici, è tutto ciò che ci rende pienamente umani. È il capro espiatorio di tutti i fallimenti personali, politici e di tutto ciò che in questo mondo non funziona. Essa è l’oggetto di una violenza che accettiamo ciecamente lasciando che non solo le madre ma anche questo mondo vadano in frantumi.
In letteratura Toni Morris, scrittrice afroamericana premio Nobel per la letteratura nel 1993, affronta il sacrificio di una madre in Beloved (1987), storia di una schiava d’america che uccide la figlia per evitare una sorte ancora più tragica. Una Medea ai tempi della schiavitù che, sebbene nella forma del fictioning, tocca temi ancora scottanti e mai risolti.
Facendo un salto lungo indietro nel tempo un’altra lettura possibile della Medea è quella delle Metamorfosi di Ovidio, in cui la donna prende sì la vita dei figli ma grazie ai suoi poteri ridà la giovinezza a Esone, padre di Giasone. Tra le sue braccia la canizie scompare, le rughe del viso si rimpolpano, il corpo ritrova il suo antico vigore.
Sono tante le donne evocate, Medea Sofonisba, Artemisia, Giuditta, Ginevra Bellini, Paulina Olowska Zalumma Agra Annie Jones Carla Lonzi, ma anche le non citate Valerie Solanas Ulrike Meinhof Dope Head Rosa Luxemburg e Eulalia Palladino, fondamentali nel lavoro di Chiara Fumai. Tutte eroine, muse, amiche, sorelle. Sospese tra mito e storia, non sono semplici ombre del passato ma presenze esplosive, che in una caduta meteoritica echeggiano il concetto di sorellanza. Un sentimento naturale, un legame forte tra donne che chiama in causa tutta la società, interpella il rapporto fra i sessi, il potere, gli affetti, la cultura, la spiritualità. Una sorellanza che non si profila sempre tiepida e pacificata ma conflittuale e a tratti luttuosa. In questo senso le lecture-performance di Chiara Fumai sono esempi folgoranti di come si possa instaurare una relazione sororale. Ha dato forma a molte vite, ha riattivato figure che l’iconicità aveva sclerotizzato, le ha rese più familiari, le ha manipolate, non sciogliendo mai l’ambiguità tra realtà e finzione, in una circolarità che nel privato ha avuto esiti tragici.
Con le forza e delicatezza di Annie Ernaux: Siamo nate nello stesso corpo. […] non ti posso mettere dove sono stata io. Sostituire la mia esistenza con la tua. C’è la morte e c’è la vita. Tu o io. Per essere ti ho dovuta negare.