Enough not enough, l’asserzione che ha dato il titolo alla 53esima edizione del Santarcangelo Festival, è un grido a gran voce di identità e corpi in rivolta. Ma oltre a questa connotazione politica preponderante, di cui abbiamo parlato nella prima parte del resoconto dell’esperienza, il festival ha manifestato anche la voglia di essere comunità. Come ogni anno anche in quest’edizione, guidata dal direttore artistico Tomasz Kireńczuk, il tessuto cittadino del paese di Santarcangelo è stato coinvolto nella sua totalità e reso un unico grande palcoscenico diffuso in cui è stato possibile progettare nuove formule comunitarie, all’interno delle quali ogni individualità ha trovato il suo spazio di affermazione. Un simbolo urbano dell’attitudine corale di un festival diffuso nella città e in continuo dialogo con i cittadini è stata Piazza Ganganelli, adattata a scenario open-air per alcune delle performance in programmazione. Tra queste, anche il workshop performativo The Guxxi Fabrika, una manifattura improvvisata di prodotti d’abbigliamento e accessori ospitata in piazza per tutta la durata del Festival. Il progetto, a cura di Cote Jaña Zuñiga, contesta i presupposti del lavoro industriale nella società capitalista, dallo sfruttamento della manodopera alla costruzione artificiale del valore economico dell’oggetto di marca. La “fabbrica” invita il pubblico a prendere parte alla produzione, dalla fase progettuale a quella realizzativa, oppure a supportare il lavoro imbastendo delle transazioni commerciali fondate sul baratto: un accessorio in cambio di altri oggetti o esperienze, con un valore proporzionale al tempo investito nella realizzazione di ciascun prodotto. Nella piazza, poco lontano dalla manifattura, su una piattaforma circolare si è consumato un rituale di catarsi collettiva dalla spossatezza e dalla depressione che ottenebrano le coscienze, un duetto ad alto bpm tra una batteria e un corpo danzante. Il ritmo forsennato di DOWN Single Version di Mélissa Guex (Svizzera, 1993) e del batterista Clément Grin (Svizzera, 1992), che si rifà a balli estatici e curativi come la Saba e all’atmosfera della club-culture, coinvolge chi assiste tutt’attorno allo spazio circolare della performance. A Santarcangelo Guex prima ha invitato tutti ad entrare con lei, poi è uscita dal cerchio e con un fumogeno colorato è salita in cima al monumento che lì vicino occupa il centro della piazza, rivendicando la conquista dello spazio pubblico, restituito all’arte e ai sogni.
Se DOWN Single Version ha pervaso gli spettatori con l’energia sincopata delle orge dionisiache, un altro rituale di fruizione collettiva di corpi danzanti che ha avuto luogo in quei giorni si è invece adagiato su un ritmo rallentato e sognante per l’infinità di un tramonto. Unending love, or love dies, on repeat like it’s endless di Alex Baczyński-Jenkins (Regno Unito, 1987) è una sequenza di modulate variazioni coreografiche di un pas-de-trois apparentemente senza fine (la coreografia dura un totale di due ore e il pubblico è invitato ad andare e venire a suo piacimento), un sistema sociale ridotto alla minima configurazione possibile di cui è messa in scena ogni combinazione relazionale. La sincronia e la divergenza dei movimenti avvicina o allontana la costituzione di legami corporei ed emotivi, rappresentati dall’atto labile e potentissimo dell’intreccio reciproco dei mignoli. Baczyński-Jenkins è il regista di un viaggio struggente che parla del bisogno profondo di stare insieme, ma anche l’aggregatore di una comunità che si è ritrovata ad assistere a questa danza della vita nel mare infinito di un campo appena arato, alle porte di Santarcangelo, lungo tutto l’arco di un’infinita ora dorata che pareva non volersi arrendere al tramonto. Se Unending love è in sostanza un’esplorazione performata delle combinazioni che possono occorrere sul piano relazionale tra tre individui congiunti da un legame emotivo, parte per il tutto del grande caos delle relazioni umane, Speaking Cables. Dispositivo coreografico per voce, cavi e altoparlanti di Agnese Banti (Toscana, 1991) è a tutti gli effetti una messa in scena delle permutazioni geometriche di una serie ridottissima di elementi di scena, solitamente asserviti alla rappresentazione e invece adesso suoi protagonisti. La performer amministra un sistema chiuso popolato da un microfono con cavo rosso, 12 cavi neri e altrettanti altoparlanti che emettono un soundscape diretto in tempo reale da Andrea Trona. Gli altoparlanti e i rispettivi cavi sono di volta in volta disposti in nuove e diverse configurazioni geometriche, performando una coreografia di suoni e voci registrate e reiterate in loop. In chiusura l’ordine esplode nell’entropia: la luce si spegne, le voci proliferano, torna la luce e tutto è in disordine. Banti scioglie le redini, il sistema si apre alla vita.
Al contrario, in Cutlass Spring di Dana Michel (Canada, 1982) ogni atto della performer è mirato a scompaginare uno status quo statico solo in partenza. Nove sedie di plastica bianca disposte a file di tre, un sacco di ghiaccio, un forchettone, un telefono sono solo alcuni dei tanti oggetti che di volta in volta appaiono sulla scena per poi essere attivati e fatti interagire l’uno con l’altro nei modi più anticonvenzionali. Michel dichiara di dare voce ad una moltitudine di diverse identità che convivono in lei: quelle di performer, madre, figlia, amante. Per farlo si relaziona sul piano corporeo con ogni presenza scenica; ad esempio si stende sulle sedie, trova un punto di equilibrio precario e poi lascia che si rovescino, fino a rimuoverle del tutto dallo spazio centrale attorno a cui si dispongono le sedute degli spettatori – lo spazio della performance in realtà si estende anche alle loro spalle e ad altri luoghi non visibili dalla loro posizione, da cui si sentono provenire i rumori prodotti dal suo errare. Cutlass Spring sembra procedere per improvvisazione e adattamento di fronte alle nuove situazioni che di volta in volta si producono dall’interazione quasi fuori controllo di tante particelle eterogenee all’interno di un sistema angusto, da cui Michel evade infine a testa alta sottraendosi allo sguardo del pubblico. Rather a ditch – Gallery version di Clara Furey (Canada, 1983) è un’esperienza raccolta nel buio, uno scavo nelle profondità dell’Io attraverso una sequenza di gesti tragici, che testano con un’estrema lentezza l’estensibilità delle articolazioni. Il tutto di fronte ad un muro nero (un’opera dell’artista visiva Caroline Monnet) e con l’ausilio (o forse l’ostacolo) di un tessuto dello stesso colore, che inghiotte la fisicità del corpo. L’opera dialoga con Different Trains (1988) di Stephen Reich, il compositore minimalista di origini ebree che con questo album si chiede, rispetto ai tanti treni su cui ha viaggiato in America dopo essere emigrato, quali treni avrebbe preso se fosse rimasto in Europa durante la Seconda Guerra Mondiale. Il tema è una meditazione sul destino, sulla morte e sul senso di colpa introiettato in chi è sopravvissuto all’Olocausto. Il titolo della performance che da questi temi prende le mosse è una citazione dall’Antonio e Cleopatra di Shakespeare, in particolare dal monologo in cui la regina d’Egitto si dice disposta a morire piuttosto che essere fatta schiava dai romani.
A fronte di tante dinamiche di comunità, anche un’esperienza che si allontana dalla folla per rivolgersi direttamente al singolo, gettando un ponte empatico verso un altro tempo e un altro spazio. Le ex-carceri di Santarcangelo hanno accolto Dear Laila di Basel Zaraa (Palestina, 1985), un’installazione interattiva per una persona alla volta nella forma di una stanza arredata con una scrivania su cui è posato il modellino di una casa. I nonni di Zaraa avevano dovuto abbandonare la Palestina nel 1948 e lui stesso è nato nel campo profughi di Yarmouk, a Damasco. Sollecitato dalle domande della figlia sul luogo dove è nato, andato nel frattempo distrutto nel corso della guerra civile siriana, ha ricostruito da fotografie e ricordi la casa dove abitava. Il visitatore fa le veci di Laila ed è invitato a interagire con gli oggetti e i cimeli di Basel – lettere manoscritte, una registrazione in audiocassetta, un album di fotografie consunte e sbiadite recuperate dalle macerie della casa – per calarsi nel dramma e ricostruire le vicende di quattro generazioni di esiliati. L’ultimo gesto che è invitato a compiere è quello di prendere un po’ di sale grosso da un contenitore e portarlo via con sé in una scatolina, rievocando così il rituale compiuto dalla bisnonna di Laila in occasione di ogni ritrovo familiare, che consisteva nel cospargere del sale sulla testa di ognuno per scacciare il male. A fine festival, sulla via di ritorno da Santarcangelo di Romagna, quei pochi chicchi di sale nelle tasche pesano come macigni.