Enough not Enough: questo il titolo scelto per la 53esima edizione del Santarcangelo Festival, una dichiarazione di intenti che è anche un grido di rivolta di artist* che danno voce ad un malessere diffuso nei confronti dello status quo. L’asserzione nominale “enough not enough”, che in italiano suonerebbe come “basta! / non abbastanza”, sembra rimandare alla percezione del raggiungimento di un livello di colmo, un limite di sopportazione per la mente e per il corpo, ma anche all’opposta convinzione che quanto fatto finora per migliorare le cose sia gravemente insufficiente. Come espresso dal presidente dell’Associazione Santarcangelo dei Teatri Giovanni Boccia Artieri, dietro questo titolo “c’è tutta l’ambiguità e la forza del vivere il disequilibrio tra ciò che siamo disposti ad accettare e ciò che non siamo più disposti ad accettare, tra ciò che ci sembra abbastanza e ciò che dovremmo desiderare”. La risposta a questi quesiti è affidata al parterre di artist* invitat* a Santarcangelo di Romagna dal 9 al 16 luglio, che nelle parole del direttore artistico Tomasz Kireńczuk, per la seconda volta alla guida del festival, decostruiscono stereotipi, attaccano modelli sociali discriminanti, “mettono in discussione i modi consolidati di leggere la realtà”, ma al contempo creano anche “prospettive differenti sulle comunità e sulle relazioni su cui si basa la nostra convivenza sociale”. Non stupisce che il linguaggio di molti dei lavori proposti fosse quello della protesta e della contestazione. In questa prima parte del resoconto dell’esperienza santarcangiolese vi raccontiamo come tutto ciò si è declinato attraverso gestualità corporee dure, politicamente connotate, corrosive e scabrose. Oppure attraverso un urlo prolungato, a squarciagola, che si riverbera nelle casse toraciche, come nel caso di Screaming for Belarus, la performance dell’artivista Jana Shostak (Bielorussia, 1993); un grido reiterato che sin dal 2021, quando Shostak protestava di fronte all’edificio della Commissione Europea di Varsavia, sensibilizza sulle violazioni di diritti umani perpetrate in Bielorussia. Ma un messaggio può essere trasmesso in modo altrettanto potente nel silenzio di un gesto minimo, come il pianto: in SPAfrica di Julian Hetzel (Germania, 1981) e Ntando Cele (Sudafrica, 1980) gli interpreti piangono e le loro lacrime vengono raccolte da delle maschere speciali che le convogliano in bottigliette, alla base di un grottesco commercio dell’empatia che si dice essere stato imbastito tra Europa e Africa; nel mondo narrato dalla performance, le lacrime imbottigliate in Europa vengono spedite nelle regioni sub-sahariane in cambio di acqua. La metafora di fondo è l’instradamento sui binari più utili alle strutture di potere dei moti empatici degli occidentali verso le regioni del Sud del mondo.
Finanche il semplice atto di ricambiare lo sguardo dello spettatore dallo spazio della scena può essere strumento politico: in The Present is Not Enough di Silvia Calderoni (Lugo, 1981) e Ilenia Caleo (Livorno, 1974), lavoro che si riferisce direttamente alla pratica del battuage e in generale all’atmosfera di libertà sessuale che si respirava nella comunità gay a partire dagli anni Settanta, un gruppo di corpi queer si offre provocatoriamente allo sguardo del pubblico, ma lo ingaggia a sua volta con i propri contro-sguardi ammiccanti, ristabilendo un equilibrio nel regime scopico. Le conseguenti scene statiche, che sembrano richiamare nelle pose e nella sovversione latente La colazione sull’erba di Manet, si attivano e disattivano alla vista degli spettatori grazie a fari teatrali o paraventi, che comportano una visione frammentaria e localizzata di ciò che avviene nello spazio della performance, in base alla posizione di seduta. Un altro lavoro incentrato su tematiche di genere è Clashes Licking di Catol Teixeira (Brasile, 1993), una coreografia di danza presentata a Santarcangelo in prima assoluta che trae spunto dall’interpretazione de L’Après-midi d’un faune (1912) del ballerino russo Nijinsky, fortemente contestato dalla stampa dell’epoca per le allusioni sessuali nelle sue movenze e per l’impiego di un vestito aderente e di una coda di cavallo, usata come una sorta di protesi corporea per sottintendere la bestialità del fauno. Nell’interpretazione di Teixeira (per cui “Nijinsky è un fantasma queer con cui danzare”) rimane il vestito aderente e semitrasparente, ma la coda si trasforma in una parrucca; ad essa si aggiungono delle punte da danza classica. Il discorso corporeo diventa più strettamente allusivo delle connotazioni classicamente maschili o femminili di alcuni movimenti di danza, che l* performer sovverte rivendicando l’“impurità” della propria corporeità transgender, che “esplode e poi si lecca per trovare piacere nella devianza”. L’impiego e il conseguente abbandono delle protesi femminili comportano reiterate e cangianti metamorfosi del corpo. Anche in Batty Bwoy di Harald Beharie (Norvegia-Giamaica, 1992), che approda a Santarcangelo dopo la première nazionale a Centrale Fies, ritorna l’utilizzo della parrucca come una protesi corporea che sottintende un portato di stereotipi di genere, in questo caso la lunga storia di discriminazione che riguarda la comunità queer in Giamaica (l’espressione che dà il titolo all’opera è un termine offensivo tradizionalmente rivolto agli uomini gay in quel Paese). Beharie inscena una coreografia sfiancante e aggressiva che va incontro progressivamente ad un cambio di postura dalla subordinazione nei confronti del pubblico alla dominazione su di esso: lo sguardo e poi la stessa presenza fisica degli spettatori si ritrovano assediati da un corpo nudo queer in rivolta.
Un altro corpo nero, nudo e queer che si fa terreno di rivendicazione politica è quello di Rébecca Chaillon (Francia, 1985), che in Whitewashing (così si definisce la pratica discriminatoria di far recitare ad attori bianchi ruoli di personaggi appartenenti ad altre etnie) interpreta il ruolo di una donna delle pulizie che agisce verso se stessa un processo di “sbiancamento”: mentre è impegnata a strofinare continuamente un pavimento bianco su cui gocciolano macchie scure da pezzi di ghiaccio sospesi, si spoglia e strofina il proprio corpo sulla candeggina per schiarirlo e al contempo camuffarlo, come alla ricerca di accettazione da parte della società occidentale. Lo sbiancamento arriva agli occhi, nascosti dietro lenti a contatto lattime. Un’altra donna delle pulizie nera, interpretata da Aurore Déon, la ripulisce dalla candeggina e applica delle lunghe extension ai suoi capelli, che vengono intrecciate e fissate a dei ganci, rappresentando con una nuova metafora visiva l’oppressione subita in Occidente dalle donne nere. E proprio di donne nere iper-sessualizzate sono le immagini presenti su alcune pagine di riviste che vengono appese ad ogni treccia. A concludere la performance, l’anelata riscossa: Déon indossa un abito tradizionale africano, mentre Chaillon si libera dal giogo delle trecce dando loro fuoco con un accendino. Il tema della sottomissione coatta, presente tanto in Batty Bwoy quanto in Whitewashing, è il fulcro attorno a cui si sviluppa BOW A STUDY di Wojciech Grudziński (Polonia, 1991), una riflessione metateatrale sulle connotazioni semantiche dell’atto di inchinarsi, in tutte le declinazioni a cui questo gesto è andato incontro nella storia della danza, con lo scopo dichiarato di decostruirlo in termini queer. Grudziński e altr* tre performer si presentano come una compagnia improvvisata che sta provando una coreografia. Il luogo della messinscena si trasforma progressivamente, modificando di conseguenza anche i rapporti di potere tra performer e pubblico, che viene coinvolto in più attività; gli viene infine richiesto di spostare le piattaforme con le sedute, da una posizione multifocale a un più canonico allineamento monodirezionale. A questo punto il costume di scena di Grudziński si spiega in un telo verde che viene teso e fissato a dei ganci; solo il suo volto rimane visibile allo spettatore, mentre il resto del corpo è nascosto al di là del telo, almeno fino a quando l* altr* performer non iniziano a riprenderlo col cellulare, il cui schermo è trasmesso sul fronte del tessuto. Il fondoschiena sottomesso e inerme di Grudziński è offerto allo sguardo attraverso un filtro solo apparente. L’artificio scenico viene smantellato e monta un motivo musicale, sempre più martellante, in cui Grudziński, poi coadiuvato da un’altra performer, avvia un’umiliante quanto estenuante sequenza ininterrotta e lunghissima di inchini a terra, dando le spalle al pubblico. Proiettate sul muro, si leggono frasi come questa: “Quando mi avete insegnato a inchinarmi vi ho creduto. Ho creduto che mi steste dando la felicità, ma voi sapevate che mi stavate uccidendo”.
Il festival si conclude con un atto di accusa sovversivo, che dissacra con toni tragicomici le fondamenta del pensiero moderno europeo per narrare una storia di rivendicazione. A Plot / A Scandal di Ligia Lewis (Repubblica Dominicana, 1983), andato in scena al Teatro Galli di Rimini, getta luce sulle rivolte degli schiavi occorse nei Caraibi a partire dal 1521 fino ai secoli successivi, evocando sulla scena i fantasmi di alcuni protagonisti più o meno noti di quella storia. “Plot” in inglese può significare “sceneggiatura teatrale”, “appezzamento di terra” oppure “complotto”, in questo caso quello perpetrato dall’Illuminismo, che ha ipocritamente messo le basi per una moderna teoria politica della libertà e della rappresentanza democratica, accettando e giustificando allo stesso tempo il commercio degli schiavi. Una scritta al neon grida “Revenge” dal palcoscenico per tutta la prima parte della pièce e la vendetta si attua con lo scimmiottamento grottesco di John Locke, il filosofo che affermava il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà e che in prima persona investì denaro nella tratta. In scena diventa un bambino viziato e crudele che calcia con sprezzo dei teschi. Lo scandalo esplode dallo spazio circoscritto del palcoscenico e scardina i meccanismi stessi di messinscena tradizionale, con proiezioni rivolte verso i palchetti, le luci della platea che si accendono e si spengono a intermittenza, la stessa performer che si aggira tra il pubblico. L’apice del pandemonio è l’atto di staccare le assi del palcoscenico, come portando alla luce tutto il marcio del colonialismo, tenuto nascosto dalle narrazioni imbastite dal pensiero europeo. Nella seconda metà la pars costruens: il corpo di Ligia Lewis si fa vascello per il fantasma della sua bisnonna Lolon, che praticava il Voodoo in un piccolo villaggio della Repubblica Dominicana, nonostante la repressione operata dallo Stato nei confronti di questi rituali tradizionali. Ligia-Lolon è l’emblema reificato di una forma di resistenza culturale che chiede a gran voce giustizia. Sul palco, un nuovo neon: “Repair?”.