La scultura in terracotta e il disegno, al centro della pratica di Emanuele Becheri (Prato, 1973) da oltre un decennio, contraddistinguono anche le opere esposte nella sua prima personale nel piccolo spazio bolognese di CAR Gallery – e Opere è anche il titolo modesto assunto dalla mostra (aperta fino al 15 febbraio). Poche sagome emaciate, scabre, fuligginose sono esposte sotto teca come reliquie archeologiche, oppure appese alle pareti dello stretto corridoio dello spazio, a metà tra dei trofei di caccia consunti e dei depositi calcarei. I soggetti sono semplici, archetipici: la sagoma di un cavallo vista di profilo che, pur avendo preso coscienza di sé, pare rimasto intrappolato in eterno nel fango primordiale che lo ha generato (Solitudine, 2024); due figure stanti, apparentemente avvolte da mantelli, che si stringono in un abbraccio di cordoglio, ritagliandosi una labile oasi di conforto (Coppia, 2024); o ancora Figure (2024) oranti che, come tronchi vetusti, sono piegate e logorate dalle intemperie. La ricca caratterizzazione delle superfici risponde ad un preciso accorgimento tecnico, vale a dire l’inclusione, durante la modellazione dell’argilla ancora fresca, di pigmenti e ossidi che a seguito del processo di cottura appariranno come macchie di muffa o nerofumo. Ne risulta un tentativo di mettere in correlazione pittura e scultura non distante, nella visione di Becheri, da ciò che avviene durante il processo di carbonatazione dell’affresco, in cui il pigmento viene incorporato inscindibilmente nell’intonaco. À pendant con questa sequenza di relitti ecco due minuscoli Studi per autoritratto, ispirati da un viaggio recente dell’artista, e differenziati nella tecnica esecutiva: un semplice carboncino, rispetto a una combinazione materica di argilla secca, carboncino e tamponamenti effettuati con mozziconi di sigaretta.
Così si fronteggiano sulle pareti opposte della saletta, aprendo e chiudendo idealmente la mostra, due alter-ego dell’artista: il fantasma evanescente di un volto ispirato dal Ritratto di Verdonck (1627) di Frans Hals, visto ad Amsterdam (Studio per autoritratto Amsterdam, 24.05.2024), e i lineamenti scavati dalla materia nera del carboncino di un uomo reduce dal campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, visitato da Becheri pochi giorni dopo (Studio per autoritratto Auschwitz-Birkenau, 02.06.2024). E a commento della propria interpretazione del ritratto di Hals l’artista tiene a sottolineare in una nota a margine quanto segue: “Ritratto di Verdonck (1627) di Frans Hals raffigura un uomo nell’atto di scagliare una mascella ossea di mucca contro di noi. Nel Diciannovesimo secolo venne sovra-dipinto un calice di vino al posto dell’osso e l’opera venne intitolata The Drinker, trasformando le arditezze della composizione di Hals in un’innocua scena di genere. Al contempo i capelli arruffati vennero celati con un cappello borghese ma, nonostante questi interventi, il volto rimase lo stesso tanto che, nel 1927, la sua espressività indusse a rimuovere le pitture posticce, rivelando un uomo che ci guarda e che, impugnando con la mano destra un ‘falcetto d’osso’ atto a colpire, martella i secoli”. Se nel dipinto seicentesco la macabra mascella di mucca è riapparsa dallo strato coprente di pittura che l’aveva trasformata in un calice di vino, nel disegno una recondita pulsione di morte affiora alla superficie torturando l’autoritratto come le efflorescenze saline torturano gli affreschi. “L’autoritrarsi non è semplicemente un genere della storia dell’arte che si perde nella notte dei tempi, esso è piuttosto un affaccio sul mondo, lo sguardo dell’artista su chi vi s’imbatte, una forma di resistenza al passare del tempo”, chiosa Becheri. E l’amalgama informe e nerastro di terracotta appeso nel corridoio, che il titolo crudele scelto dall’artista (Testa, 2018) connatura come il volto deturpato di un reduce di guerra, è forse il ritratto più fedele del quid, della “materia prima” dell’uomo, carbonatato nella sua carne cedevole.