Fino al 12 gennaio 2025 il Museo Castromediano di Lecce ospita la mostra Elpís. Prometeo o del sogno infranto di Europa di Costas Varotsos, l’unico progetto approvato in Puglia nella stagione 2022-2023 del PAC – Piano dell’Arte Contemporanea del Ministero della Cultura. La mostra è curata da Giusi Giaracuni, storica dell’arte e assistente di Varotsos, e Luigi De Luca, direttore del Polo biblio-museale di Lecce. Elpís. Prometeo o del sogno infranto di Europa rilegge il mito di Prometeo ai giorni nostri: sembriamo aver perduto il dono del fuoco ma rimane accesa la speranza (elpís), che Esiodo ne Le opere e i giorni descrive come l’ultimo dono rimasto nel vaso di Pandora.
In occasione della mostra abbiamo posto alcune domande a Giusi Giaracuni.
Leonardo Ostuni: Come e quando è nato il progetto espositivo Elpís. Prometeo o del sogno infranto di Europa?
Giusi Giaracuni: L’idea del progetto Elpís. Prometeo o del sogno infranto di Europanasce ad Atene nell’estate del 2020 dopo tante conversazioni avute insieme con Costas Varotsos, in quel periodo impegnato all’allestimento scenico di Prometeo al teatro greco di Epidauro, per la regia di Stavros Tsakiris. L’artista ha sempre considerato quella di Prometeo una tragedia molto importante, che coincide con un contesto moderno e contemporaneo e, là dove la civiltà post-bizantina trasmette ancora la sua stagnazione, Varotsos ripropone proprio a Epidauro l’antico mito, rimettendo l’uomo davanti alle grandi domande, perché la portata della trasformazione, anzi dell’evoluzione, potrebbe essere notevole.
Prometeo, che ha sfidato il potere divino per poter dare il fuoco agli uomini, è stato punito per il desiderio di fare evolvere l’umanità, e dunque incatenato. Nella scenografia di Epidauro l’artista non pensa fosse importante installare la montagna o la roccia dove Prometeo è stato incatenato. Sceglie di realizzare per la prima volta una lancia rossa verticale, un’installazione che segna la relazione tra il cielo e la terra, tra il divino e l’umano, in un approccio minimalista per evidenziare non solo la performance degli attori ma anche il rispetto per un monumento antico come il teatro greco.
Ci è sembrato quasi naturale adottare quindi il fuoco, Elpís, nel nostro progetto come il simbolo di una speranza di salvezza per l’umanità, a partire dalla conoscenza conservata nel più antico museo pubblico della Puglia, il Museo Castromediano.
LO: La mostra comprende opere provenienti dalla collezione dell’artista e ideate a partire dagli anni Ottanta, ma anche due installazioni site-specific pensate per gli spazi del Museo Castromediano di Lecce. Quali sono queste ultime?
GG: Il percorso espositivo della mostra si articola dentro e fuori gli spazi del museo e comprende opere provenienti dalla collezione dell’artista che entrano in relazione con i ‘paesaggi culturali’ del Castromediano, attualizzandone i contenuti storici e mitologici del patrimonio archeologico con un chiaro riferimento alla dimensione umana, ai concetti di vita, di morte, di sacralità. Subito all’interno, tra l’architettura contemporanea del museo, troviamo opere quali Globo, del 1995, un mondo stratificato dal tempo e sezionato in otto elementi, dentro il quale sono disegnati gli uomini su lastre di vetro ‘libere’ che possono ascendere al cielo o discendere negli inferi; e La verità è sempre un’altra, opera del 1980, scritta in gesso su una piccola lastra di ferro che invita alla riflessione sulle dinamiche del tempo reale. Europa del 2018 dialoga invece con il “paesaggio di mare” e trova il suo primo intervento in una performance nel contesto diDocumenta 14, quando Varotsos infrange con un martello le ventisette bandiere dell’Europa, precedentemente stampate su vetro, come un chiaro attacco ai nazionalismi dei singoli paesi, e ricompone i frammenti in modo pittorico su lastre di metallo, in un’unica grande e nuova bandiera lunga quindici metri. Labirinto del 1997, allestito nel “paesaggio di terra”, è costituito da lastre di vetro chiuse, chi è dentro non può uscire chi è fuori non può entrare, una sorta di trappola esistenziale. Venere nera del 1982, opera giovanile a cui l’artista è particolarmente legato perché realizzata dopo il suo periodo di formazione in Italia, è collocata nel “paesaggio del sacro” ed esprime la forma in movimento attraverso il rapporto tra l’uomo e la natura, tra spazio e tempo. Dialogo del 2018, costruita con sottili punte di vetro che emergono da elementi regolari, rappresenta la metafora dell’incontro, oppure dello scontro, ed è collocata nel “paesaggio dei vivi”. Infine, nel “paesaggio del morti”, troviamo l’opera dal titolo Soffi del 2018, composta da dodici elementi verticali in ferro e vetroresina che seguono il respiro verso un’altra dimensione.Le opere site-specific rappresentano il nucleo di tutto il progetto espositivo e sono ideate per gli spazi del Castromediano. Prometeo, il dio/poeta, è costruito a partire dall’armatura metallica appositamente per il giardino interno del museo, esprimendo attraverso la trasparenza del vetro, materiale duro ma allo stesso tempo fragile, la sintesi di tutte le esperienze fatte dall’uomo. Elpís rappresentato dal fuoco, l’elemento rubato agli dei, è installato all’ingresso dello spazio esterno del museo attraverso un’altissima lancia rossa in ferro di diciotto metri. Un segno violento che, generato dai disastri dell’umanità, si proietta con la potenza di un fulmine, scagliato dalla terra verso il cielo a rischiarare le tenebre in cui brancola l’umanità. Elpís appunto, la forma della speranza.
LO: Elpís. Prometeo o del sogno infranto di Europa affronta il mito di Prometeo e lo rilegge in chiave contemporanea. Quanto incide la provenienza greca di Costas Varotsos nella scelta di questo mito e qual è il rapporto dell’artista con questo genere?
GG: Prometeo, come è noto, è considerato il più importante mito dell’antichità classica, il simbolo dell’insostenibilità del bene, della generosità, della solidarietà verso il genere umano. Varotsos ha vissuto profondamente immerso nella cultura mitologica, trascorrendo l’infanzia e l’adolescenza ad Olimpia, presso la tomba di Pelope, il tempio di Era, il tempio di Zeus, l’Altis, e da greco crede fermamente che la civiltà europea contemporanea abbia disperso i valori dell’eredità classica, di pietà e umanità. Egli riparte proprio dalla rilettura e reinterpretazione del mito, come patrimonio da trasmettere, un mezzo per comprendere la memoria del mondo e le radici delle civiltà. Il progetto espositivo, infatti, rilegge il mito di Prometeo in chiave contemporanea mettendo in evidenza le offerte elargite agli uomini nelle loro diverse forme, come quella del fuoco, assunto come simbolo del sapere tecnico. Lo stesso fuoco, però, simboleggia anche la condanna dell’umanità all’autodistruzione. Secondo Varotsos, l’umanità potrebbe insomma evitare la distruzione se solo si giovasse dei vantaggi della tecnica, e tuttavia potrebbe non bastare la sola conoscenza tecnico-scientifica. C’è bisogno di un altro dono più autentico, elpís, la speranza che l’artista continua a coltivare nel futuro dell’umanità. Elpís diventa così metafora dell’arte stessa, l’unica luce nel buio che minaccia l’esistenza umana contemporanea. Prometeo del Castromediano, come un’altra importante opera dell’artista, Il Poeta di Nicosia a Cipro del 1983, è fragile, è pericoloso, è esplosivo, è suicida, è un uomo. L’attualità del mito e della sua tragedia sta nel mettere l’umanità di fronte ad una nuova grande occasione, rappresentando così la speranza laica e lucida della conoscenza, dell’arte e della cultura. E chissà… solo l’arte forse può dare forma a questo tipo di speranza.
LO: Il museo Castromediano porta avanti da alcuni anni una programmazione espositiva incentrata sul rapporto tra antico e contemporaneo. Focalizzandoci su questa mostra, attraverso quali tematiche le opere di Varotsos dialogano con le collezioni del museo?
GG: Il ruolo che il Museo Castromediano si è dato, almeno negli ultimi anni, è quello di lavorare nel contesto urbano partendo dalla sua specificità: essere il più antico museo pubblico della Puglia con una significativa collezione archeologica e storico-artistica. Fin dal suo riallestimento nel 2018, il Castromediano ha utilizzato l’arte contemporanea (con artisti come Pino Pascali, Michelangelo Pistoletto, Nico Angiuli, Paolo Gioli, Michele Sambin, Fernando De Filippi, Nicola Genco, fino a Costas Varotsos) per ridefinire il ruolo del museo in relazione alle grandi contraddizioni della società in cui viviamo. L’arte ci aiuta a rileggere il patrimonio storico-artistico conservato nei musei per meglio comprendere il senso della contemporaneità e della vita quotidiana di uomini e donne.
La collezione archeologica del Castromediano è organizzata per paesaggi, basandosi su cinque grandi temi: il mare, la terra, il sacro, i vivi, i morti.
Varotsos si è confrontato con questi contesti a partire dalle originali architetture del Museo, progettate negli anni settanta da Franco Minissi. La mostra nasce proprio da un dialogo tra l’artista contemporaneo, la dimensione storica e lo spazio architettonico del Castromediano. Ogni opera esposta è stata selezionata in relazione a uno dei paesaggi archeologici. Questa scelta non è stata casuale, ma frutto di un confronto tra l’artista e noi curatori, portando all’individuazione di cinque opere provenienti dalla sua collezione, dagli anni ottanta agli anni recenti. A queste si aggiungono Globo e La verità è sempre un’altra, quest’ultima fortemente voluta da Varotsos quasi come epigrafe contemporanea in un museo ricco di epigrafi che rimandano alle radici messapiche, elleniche e latine del Salento. Inoltre, le due grandi opere site-specific, Elpís e Prometeo, richiamano il significato dell’intero progetto, riferendosi sia all’attualità del mito, sia all’attualità dell’istituzione museale del Castromediano.
LO: Il vetro è utilizzato dall’artista in diverse opere esposte in mostra, come Prometeo o Labirinto. Quale particolare significato attribuisce Varotsos a questo materiale?
GG: È vero, il vetro è il materiale di riferimento per Varotsos ma non è il primo o almeno non fine a sé stesso. È lo spazio il “materiale” di riferimento per la realizzazione di un’opera, uno spazio che viene modificato e che, a sua volta, modifica l’opera stessa. Questo concetto è ancora più vero nelle opere pubbliche di Varotsos, che hanno la capacità di trasformare l’ambiente circostante e di essere “ridefinite” da esso. Ad esempio Il Corridore del 1994, ad Atene, contiene già in sé la sintesi del movimento, ma è il traffico intorno all’opera che ne accresce la forza e il dinamismo.
Il vetro, e di conseguenza il suo utilizzo, non costruisce l’opera, ma ridefinisce uno spazio che cambia costantemente, attraverso un processo sintetico. Varotsos lavora come un velista, cercando di trovare una sintonia con le forze in movimento per raggiungere la sintesi e il risultato finale. Anche le dimensioni di un’opera come Prometeo o Labirinto nascono da questa interazione dinamica. Il vetro, rotto in frammenti, diventa un mezzo per arrivare a questo tipo di sintesi, in equilibrio tra spazio e tempo. Il tempo è scandito proprio dalla sovrapposizione del materiale tagliente, che si solidifica in segni di luce, restituendo a chi osserva, solo l’impressione della materia. È la luce che colpisce e dipinge il vetro diventando supporto, e la sua trasparenza dissolve del tutto la forma, proiettando la materia nello spazio. Il vetro rappresenta quindi luce, energia, movimento, equilibrio. Non c’è fine, solo un inizio.
LO: La tua collaborazione con l’artista Costas Varotsos è iniziata più di dieci anni fa. Avevi già lavorato in Puglia con lui? In che modo si è evoluto nel tempo questo rapporto?
GG: Conosco Costas Varotsos dagli inizi degli anni duemila, quando frequentavo la Scuola di Specializzazione post laurea in Storia dell’Arte Contemporanea dell’Università degli Studi di Siena. Era stato invitato dal Direttore della Scuola, Enrico Crispolti, per relazionare sulla sua esperienza artistica. Qualche anno più tardi, nel 2011, quando si trattò di scegliere un’artista che potesse intervenire sul relitto albanese della Katër I Radës, pensai immediatamente a lui, che accettò la sfida, quella di trasformare la tragedia in un segno di rinascita.
Accadde nel Canale d’Otranto nel marzo del 1997. Oltre ottanta profughi albanesi, per lo più donne e bambini, incontrarono la morte dopo la collisione con una nave della Marina Italiana, impegnata in una delle prime azioni di ‘respingimento’ dell’immigrazione clandestina. Ciò che è successo dopo nel Mediterraneo è ancora tragicamente attuale. Il rapporto tra Varotsos e il Salento nacque proprio con il progetto L’Approdo. Opera all’Umanità Migrante, uno dei primi artisti a confrontarsi con questa ferita aperta dell’umanità. Il progetto artistico scaturì proprio dalla decisione di sottrarre all’abbandono e all’oblio il relitto arrugginito della motovedetta albanese depositata, dopo il recupero dal fondo marino, in un campo della Marina Militare a Brindisi. Per volontà dell’autorità giudiziaria e dietro la spinta dei parenti dei naufraghi, la Katër I Radës fu riportata in superficie per consentire il recupero dei corpi dei migranti, le indagini e il processo. Dopo quattordici anni, fu decretata la demolizione del relitto. La decisione di salvarlo dalla demolizione e trasformarlo in una testimonianza concreta di una tragedia che non doveva più ripetersi ha portato la Katër verso il suo ultimo approdo: Otranto e il suo porto millenario, simbolo di accoglienza e solidarietà tra i popoli. Ci siamo posti il problema di come raccontare questa immane tragedia. L’intento dell’artista e nostro era di pensare alla tragedia non come fine, ma come trasformazione. Non una distrazione o una fuga dalla morte, ma un tentativo di indagare, comprendere e rielaborare questo concetto di morte in relazione alla vita. Era la prima volta di Varotsos in Puglia, almeno per un progetto così complesso. Il nostro rapporto con l’artista è rimasto fortemente influenzato dall’esperienza della Katër I Radës. Ne è nato un rapporto profondo che è umano prima ancora che lavorativo. Proprio nella dimensione umana di questo rapporto nasce e si sviluppa il progetto sul mito di Prometeo, pensato originariamente per Otranto e per il decennale de L’Approdo. Opera all’Umanità Migrante. Poi la pandemia ha costretto a cambiare i nostri programmi, ma ciò ha permesso di candidare il progetto al Piano per l’Arte Contemporanea del Ministero della Cultura e di vedercelo approvato. Da questa approvazione è nata la decisione di ripensare la mostra nel contesto del Castromediano.
LO: Quando è prevista la pubblicazione del catalogo della mostra?
GG: Il catalogo dovrà riflettere la lunga gestazione del progetto espositivo, in relazione alla collezione archeologica e agli spazi architettonici interni ed esterni al museo. Abbiamo documentato ampiamente sia la fase di produzione delle due opere site-specific, nelle officine metallurgiche, nelle vetrerie, sia la fase costruttiva e allestitiva. Ora si tratta di passare alla fase della selezione dei materiali visivi e poi a quella della scrittura. Il catalogo dovrà documentare la mostra ma anche la sua relazione con gli spazi del museo, da cui discende una parte importante del suo significato. Infine, dovrà documentare come Elpís e Prometeo cambiano la storia stessa del museo e il suo significato nella società. Un’operazione complessa che richiede molto tempo. La mostra andrà avanti fino a gennaio 2025, e per quella scadenza dovremmo riuscire a completarlo.