Dopo le conclusioni e la parola «fine» che ha chiuso tanti sistemi, s’apre il gioco dell’impreveduto; ma «nostro» è il cantare, ubriachi di terrore negli spazi, LO SPAZIO: «il puro vuoto» che ci libera dal fascino del caos e ci insegna «la nuova dimensione».
Le parole di Anton Giulio Ambrosini, che tratteggiano la natura mistica e potenziale dello Spazialismo tanto da identificarne sia le principali bisettrici di ricerca sia i registri tecnici ed operativi, stridono all’evidenza storica per la quale la critica ha disatteso a lungo la funzione documentale e documentaria nei confronti del movimento, o perlomeno ha concesso a quest’ultimo una forma effettiva di riconoscimento. L’inversione di tendenza degli ultimi decenni, che si sviluppa a partire dalla prima, cardinale ricognizione su Lucio Fontana a cura di Enrico Crispolti nell’ormai lontano 1987 a Villa Malpensata di Lugano, apre la strada ad un’inesausta attività di studio e del genio argentino, e del più ampio e pirotecnico movimento spazialista. Milano, seconda capitale dello Spazialismo dopo Venezia, risponde a questa responsabilità storica indossando prestigiose occasioni espositive, alle quali Galleria Gracis aggiunge “Edmondo Bacci e lo Spazialismo veneziano”, in programma fino al 17 gennaio 2025 in collaborazione con la Galleria Reve Art di Bologna. La mostra raccoglie circa 30 opere dei suoi esponenti zenitali: Edmondo Bacci, Mario Deluigi, Ennio Finzi, Bruna Gasparini, Luciano Gaspari, Virgilio Guidi, Gino Morandis, Saverio Rampin e Vinicio Vianello, alcune delle quali provenienti da prestigiose collezioni private veneziane.
Se l’origine del Movimento spazialista si radica nel Manifesto Blanco di Lucio Fontana nel 1946, si deduce facilmente quanto le successive e numerose edizioni non solo includano nuovi firmatari, ma soprattutto amplino il contenuto del discorso spaziale, capace tuttora di trasmettere un’inclassificabile energia creativa e di tratteggiare la natura liberatoria e non grammaticale dell’intera esperienza. Esperienza a tutti gli effetti “corale” e collettiva che trova primo sviluppo non tanto a Milano, rapita dalle ricerche nucleari, quanto piuttosto proprio a Venezia, dove delle straordinarie premesse culturali – sviluppate durante il periodo bellico – attrezzano di vitalità ed entusiasmo il contesto artistico serenissimo del Secondo dopoguerra, già arricchito dall’arrivo di artisti, intellettuali ed aristocratici ed ai relativi cenacoli, come nel caso esemplificativo della “dogaressa” Peggy Guggenheim.
Ponte tra Milano e Venezia è Carlo Cardazzo, che con la Galleria del Naviglio e l’omonima, in realtà antecedente, del Cavallino, compila una ricognizione dei più vivaci fenomeni di ricerca astratta e informale in laguna, tra cui ovviamente l’intera avanguardia spaziale. In effetti, è tra quelle pareti in Calle della Frezzeria progettate – per la seconda volta – da Carlo Scarpa che lo Spazialismo si fa un “luogo” collettivo e dialettico, aperto ad ogni adesione e capace di squadernare, in modo davvero liberatorio e “autogenerativo”, ogni stanca ricerca estetica antecedente gli anni Quaranta.
Se è una Finestra di Virgilio Guidi che inaugura il percorso espositivo, sublime sintesi tanto neoplastica quanto espressionista come a voler rendere il cielo misurabile, il protagonista della mostra è il discepolo Edmondo Bacci, ed è raccontato con con nove capolavori particolarmente significativi. Le Fabbriche sono prova evidente di quanto l’artista, a partire dalla sua mostra al Cavallino del 1945, si sia “mosso verso la ricerca di formule e forme che esprimessero una verità possibile e non riproducessero una verità data”.
Domiciliato a Marghera, racconta egli stesso quanto fosse quotidiano l’incontro con “ciminiere ed altiforni delle fabbriche”, eseguite con sola o prevalente tonalità nera ma di sottile intenzione diafana e quasi “pulviscolare”, che tanto suggeriscono analogie con la poetica di Emilio Vedova. Come in un canovaccio di regia che Michelangelo Antonioni immaginerà per Il Deserto Rosso, l’avvento del colore tra quei tralicci metallici inaugura il nuovo ciclo degli Avvenimenti che aprono la mostra, caratterizzati da una forte emersione cromatica e privi di alcuna coordinata oggettiva o geografica. Bacci intende scrivere nuove modalità di performare la pittura nello spazio: modalità fenomeniche, effettivamente spaziali e anzi stellari in quanto astronomiche. Ciascun Avvenimento è considerabile come un inedito accendersi della luce che determina galassie, nebulose, “macchie cosmiche”, ovvero la capacità del colore di distribuirsi nello spazio vuoto e quindi, appunto, cosmico.
Di quella stessa cosmicità, pur più sculturale e sospesa, si nutre Vinicio Vianello, presentato con un nucleo di dipinti che dimostrano quanto la sua autonomia dalla compagine veneziana sarà fonte di premio, anche grazie alla sua sperimentalità artigianale e non solo pittorica – ma afferente, a livello di esempio, al mondo del vetro, la cui esecuzione suscita particolare interesse da parte di Peggy Guggenheim. La mostra procede includendo artisti che presero parte al movimento, pur non firmandone i manifesti: è il caso di Ennio Finzi, Luciano Gaspari, Saverio Rampin e Bruna Gasparini.
Risulta necessario soffermarsi su quest’ultima, il cui carattere schivo e restio alla frequentazioni pubbliche la porta alla formazione pittorica da autodidatta ma, malgrado ogni ritrosia, si rafforza dell’amicizia di Virgilio Guidi, “mentore” del gruppo, e dei sostegni di Arturo Martini. Dopo un primo periodo cubista, essenzialmente volto alla ricerca di nuove vie di rappresentazione del reale, l’effettivo approdo risolutivo alla problematica astratta si verifica con il Premio Burano del 1956, forte del sostegno dell’amico Bacci. Come riporta Luca Massimo Barbero, due sono le bisettrici di ricerca che, da quel momento, percorre Gasparini: quella sinestetica del “suono della luce” o quella che meglio racchiude i quattro dipinti in mostra, ancora una volta astronomici, dove masse cupe e informi vengono squarciate da bagliori magmatici e, anzi, cosmici.
Ultima solo in ordine di visita è la sala dedicata a Mario Deluigi. Figura di spicco nell’ambito veneziano ma in realtà in costante confronto con Fontana tra Milano e la stessa Venezia, oltre che assistente di cattedra di Arturo Martini all’Accademia di Belle Arti, Deluigi stringerà una fraterna amicizia con Carlo Scarpa, con il quale fonderà la Scuola libera di arti plastiche in compagnia di Ambrosini nel 1947. La sua inesausta ricerca di una “libertà espressiva” troverà effettiva maturazione dopo la visione delle opere di Jackson Pollock, esposte dal 1948 a Venezia proprio da Cardazzo. Finalmente, quell’”andare al di là della superficie” trova sviluppo nella ricerca tecnica secondo il “bisogno moderno”, e nasce così il grattage. “Fatto allo scopo di trovare una via d’uscita all’arido bidimensionalismo post-cubista e astrattista”, il grattage si ancora al concetto stesso di vuoto attraverso il graffito. L’azione abrasiva dello strato superficiale consente così l’emersione di un fondo chiaro, che rivela filiformi spiragli di luce. Di questa poetica di abrasione della materia e della sottrazione sculturale dal pieno, come in una radicale architettura del segno graffito, si caratterizza la sala, che perfettamente racconta come Deluigi abbia saputo immaginare, per citare lo stesso Barbero, “forme create nella luce del segno”.
Cover: Installation view Edmondo Bacci e lo spazialismo veneziano Galleria Gracis 12 novembre 2024 17 gennaio 2025 photo credit Fabio Mantegna