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Due Mondi, Viasaterna | Intervista con gli artisti

[nemus_slider id=”60064″] È in corso alla galleria Viasaterna di Milano la mostra “Due Mondi”, curata da Fantom. Sono esposti lavori dell’artista giapponese Kensuke Karasawa (Alchi, 1987), inediti per l’Italia, e l’ultimo progetto della fotografa Francesca Rivetti (Milano, 1972). È un...

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È in corso alla galleria Viasaterna di Milano la mostra “Due Mondi”, curata da Fantom. Sono esposti lavori dell’artista giapponese Kensuke Karasawa (Alchi, 1987), inediti per l’Italia, e l’ultimo progetto della fotografa Francesca Rivetti (Milano, 1972). È un percorso che indaga e attraversa natura, percezione, esperienza e sua rappresentazione, … “Si tratta di un approccio metalinguistico, rivolto a indagare per prima cosa il linguaggio espressivo utilizzato – la scultura per Karasawa, la fotografia nel caso di Rivetti – eppure sfruttato da entrambi senza alcuna rigidità, mescolando il geometrico rigore dello studio scientifico con atmosfere riscaldate da intimità e picchi di autentica visionarietà” (CS).

ATPdiary ha deciso di intervistare i due artisti.

ATP: Nel comunicato stampa della mostra “Due mondi” si dice che la natura è una tua costante fonte d’ispirazione. Mi spiegheresti in che misura?  Perché fai partire la tua ricerca da lì?

Francesca Rivetti: La mia ricerca parte anche dalla natura, soprattutto negli ultimi lavori credo si senta di più il mio legame con l’acqua. Oltre ad essere un ambiente a me congeniale siamo tutti formati per la maggior parte di acqua, come il nostro pianeta. Abbiamo nella memoria corporea acqua.  E la cerchiamo nello spazio. Difficilmente sondabile e con diverse leggi a governarlo, quello del mare rappresenta il mondo di sotto, con tutto ciò che può comportare.

Kensuke Karasawa: Al momento, siccome i motivi delle mie opere sono i motivi naturali della montagna e della cascata, si tende a pensare che la natura sia il tema principale. Tuttavia il punto di inizio della mia espressione è il mondo che ho visto e di cui io ho avuto un’esperienza corporea, nella sua interezza. Non è che la natura sia importante di per sé, è l’esperienza corporea ad essere importante. Penso che vedere e percepire realmente sia una cosa fondamentale. In particolare a me piace scalare le montagne. Quando vivo l’esperienza del punto di vista lontano da quello consueto di tutti i giorni, proprio dell’avanzare poco per volta, un passo dopo l’altro, mi capita di percepire paesaggi totalmente nuovi, che sento unicamente miei. Dall’accumularsi di tali esperienze fisiche ho ottenuto una “nuova unità di misura in grado di contenere il mondo”. È questo che desidero esprimere attraverso il medium della scultura.

ATP: Il lavoro che presenti s’intitola I Want To Talk To Seymour Too. Come mai questo nome?

F.R.: Il titolo è un indicatore del desiderio di comunicare ad un personaggio a cui si attribuisce caratteristiche particolari, ma che forse non c’è. Una sorta di Aspettando Godot. E’ ispirato da un racconto di JD Salinger.

ATP: Il tuo progetto è composto da tre lavori, in cui a dominare è la tematica del mare, ma emergono poi sacchetti di plastica, oggetti levigati dall’acqua e pitture parietali antiche. Che relazione c’è tra tutti questi elementi? E perché li hai scelti?

F.R.: Quest’ultimo lavoro parte un po’ da quello precedente Breath Keepers che raccontava lo stato di “caduta” a testa in giù, necessario per scendere in mare. Mare che lambisce tutto indistintamente, mettendo l’unico a contatto con il tutto. e come in una mareggiata o uno tzunami può far emergere e confluire indistintamente i più disparati elementi. In questo caso sono io che collego acqua, plastica e oggetti che hanno vissuto il mare, e per questo rilevanti, ma anche fotografie, lastre di vetro fotografiche e fotografie di pitture, in un continuo rimando. Le onde le ho modellate con sacchetti di plastica, materia ormai più diffusa nel nostro pianeta e di cui sono fatti i negativi; con la plastica ho incorniciato dettagli di grottesche, caratterizzate da una componente ibridante e presenze ancestrali come è ancestrale il disegno per la fotografia.

ATP: Nel CS si dice che il tuo è un “approccio metalinguistico, rivolto a indagare per prima cosa il linguaggio espressivo utilizzato”. Mi spiegheresti in che modo e misura?

F.R.: Ho cercato di inscenare gli elementi dando forma ad una mia visione. L’azione è più simile alla realizzazione di un quadro, ad un “disegno” che ho in mente.   Compongo una scena, teatro di un vissuto, e la riprendo in modo tale da mettere lo spettatore frontale ad essa. Tendo ad un linguaggio ibrido, dove si immetta un elemento nell’altro. Fotografia che può esprimere un “disegno”.

ATP: La tua biografia mette in evidenza che sei un allievo dei due massimi esponenti del Mono-ha: Tatsuo Kawaguchi e Kishio Suga (di cui è ora in corso una grande retrospettiva all’Hangar Bicocca). Cosa hai ereditato dalla loro riflessione? E in che modo ti senti legato al loro insegnamento?

K.K.: Vorrei iniziare con una precisazione: se è vero che il prof. Kawaguchi e il prof. Suga di cui sono stato allievo all’università sono artisti eccezionali e mi hanno insegnato moltissimo, non sento di seguire le loro orme e non considero la loro riflessione come un’eredità. Non essendo la scultura il campo di Suga né di Kawaguchi, da loro non ho avuto insegnamenti sulla scultura come forma plastica, bensì sul pensiero, sulla percezione delle cose e la presa di coscienza di esse. Prima della specialistica avevo frequentato solo corsi di scultura. Per me il concetto di “scultura” era definibile in termini di massa e volume. Il professor Suga, che trasforma in opera il contesto che comprende la materia e lo spazio nel quale essa viene introdotta, ha fatto in modo che mi accorgessi che anche per quanto riguarda il mio lavoro di scultura esisteva la relazione con lo spazio circostante. Il professor Kawaguchi mi ha dato l’opportunità di scavare a fondo alla ricerca di quello che suscita il mio interesse e capire meglio il desiderio che come artista, sono chiamato ad esprimere.

ATP: Presenterai opere costituite da legno di canfora e cera, utilizzati d’altra parte anche dagli artisti del Mono-ha. Come mai hai recuperato questi materiali? E che connotazione assumono nel tuo lavoro?

Sento che il legno con la sua forza materica è perfetto per le forme che voglio creare. La creta per esempio, disperde nel necessario passaggio al gesso o alla resina parte della sua forza come materiale. La pietra invece di forza ne ha troppa e sento che non si adatta alle forme che desidero plasmare. Inoltre nel legno sono incisi gli anelli che testimoniano che esso era in vita. Quindi mi sento come se mi fosse stato affidato qualcosa di vivo, ho la sensazione di trovarmi in presenza del materiale. La cera mi affascina perché è diversa dal legno. Diventa liquida se viene scaldata e si solidifica con il freddo: è “fluida”. Normalmente la scultura del legno procede attraverso l’intaglio. Si scavano i volumi in una sola direzione verso il negativo, da più a meno. Però andando ad aggiungere la cera, riesco a compensare il vuoto generato da questa costante sottrazione alla quale la scultura del legno sembra essere condannata. Restituendo volume plastico all’intaglio ho scoperto un approccio nuovo. Utilizzo questo connubio di legno e cera che mantiene la forza espressiva della materia cambiando al tempo stesso, nella convinzione che esso permetta di dare alla luce un nuovo tipo di scultura nel quale sia insito il potenziale mutamento.

ATP: Sempre nel CS trovo scritto: “Le sculture di Karasawa agiscono così come sottili dispositivi di incrinamento delle convenzioni. Innescano cortocircuiti. Procurano spostamenti. Minimi. A volte impercettibili. Rivoluzioni silenziose. Ma sostanziali”. Mi spiegheresti il significato di questo discorso all’interno del tuo lavoro artistico?

K.K.: Sono molto grato per questo testo che fornisce una chiave di lettura molto affascinante del mio lavoro. Esso esprime con grande accuratezza e precisione ciò che voglio trasmettere al fruitore dell’opera attraverso il mio lavoro. Come ho già menzionato in precedenza, io mi confronto con il mondo nella sua interezza. L’ambiente nel quale siamo cresciuti fino ad oggi, viene percepito da ognuno di noi, dal proprio singolare punto di vista, come normalità. Però il modo in cui guardiamo questo mondo “normale”, normale non è. Cambiando il punto di vista, istantaneamente muta d’aspetto. Il mondo non cambia. Tuttavia il non convenzionale che abbiamo messo il connessione con ciò che percepiamo come convenzionale è subito dietro l’angolo. Per aprire la porta che conduce a questo mondo, io modifico leggermente paesaggi che danno un senso di déjà-vu, creando opere che implicano un nuovo punto di vista. Nel testo è stata usata la parola “dispositivi”. Io realizzo le mie opere considerandole proprio “dispositivi per introdurre unità di misura ancora sconosciute”.

Due Mondi,   Kensuke Karasawa & Francesca Rivetti,   Courtesy of Viasaterna-01.jpg
Due Mondi, Kensuke Karasawa & Francesca Rivetti, Courtesy of Viasaterna
Due Mondi,   Kensuke Karasawa & Francesca Rivetti,   Courtesy of Viasaterna
Due Mondi, Kensuke Karasawa & Francesca Rivetti, Courtesy of Viasaterna
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Due Mondi,   Kensuke Karasawa & Francesca Rivetti,   Courtesy of Viasaterna
Due Mondi, Kensuke Karasawa & Francesca Rivetti, Courtesy of Viasaterna
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