Fino al 27 maggio le sale romane di Contemporary Cluster a Palazzo Brancaccio ospitano Duale, esposizione collettiva a cura di Lorenzo Madaro. Focus centrale della mostra è la relazione dialogica e il confronto serrato tra le opere di quattro maestri storici dell’arte contemporanea (Giulia Napoleone, Guido Strazza, Giuseppe Spagnulo e Pasquale Santoro) e le attuali produzioni di quattro artisti di ultima generazione (Canicola, Alberto Gianfreda, Andrea Polichetti e Giulia Manfredi).
Sul valore di questo denso progetto espositivo, sul segno precorritore delle ricerche formali e teoriche di autori spesso rimasti volutamente ai margini del sistema dell’arte e sulle risposte operative della generazione dei giovani artisti, abbiamo realizzato un’intervista al curatore Lorenzo Madaro che riportiamo qui di seguito.
Vania Granata: Duale è un incontro di artisti di differenti generazioni; un percorso espositivo che avvera un dialogo serrato tra autori storici, eppure di nicchia, e interpreti di nuova generazione. Questa modalità curatoriale è una scelta che hai proposto in occasione di questa mostra, oppure rappresenta un vero e proprio progetto che persegui da tempo e che hai realizzato in altre occasioni?
Lorenzo Madaro:Da molti anni la mia ricerca come curatore si concentra anche su una serie di artisti che hanno lavorato con un approccio pionieristico sin dagli anni Sessanta, seppure un po’ in sordina rispetto ad alcune istanze del sistema dell’arte contemporanea. Mi riferisco, ad esempio, a Pasquale (Ninì) Santoro, a Guido Strazza, a Giulia Napoleone; sono artisti di cui mi occupo professionalmente da tempo e che ho avuto l’opportunità di conoscere personalmente grazie al mio amico Peppino Appella. È stato lui a dedicarsi al loro lavoro con grandissima attenzione, anche filologica, negli ultimi quaranta anni, se non oltre. Ritengo che sia oggi necessario avverare una riscrittura del contemporaneo soprattutto in relazione alle ricerche che si sono sviluppate sin dagli anni Cinquanta e Sessanta anche attraverso questi nomi che tu hai definito di “nicchia”, ma che in realtà sono veri e propri protagonisti di alcune esperienze artistiche nodali. A questo riguardo penso a Pasquale Santoro – uno dei fondatori storici del Gruppo 1 insieme a Frascà, Carrino, Pace, Uncini, Biggi – che ha concorso in prima persona al rinnovamento del linguaggio scultoreo di quegli anni attraverso un impegno, spesso solitario. Un autore che ritengo per questi motivi meritevole di essere riscoperto e ristudiato.
In questo specifico senso, Duale rappresenta un pretesto per rileggere questi nomi, attraverso una forma di dialogo serrato tra un maestro e un giovane artista. Naturalmente si tratta di un confronto dialettico che rivela una serie di antinomie tra i linguaggi dei singoli artisti, ma che al contempo fa emergere le caratteristiche peculiari del lavoro dei singoli.
VG: Duale è al contempo un percorso espositivo binario, eppure omogeneo. Entrando all’interno delle sale di palazzo Brancaccio che ne ospita il contenuto, si ha quasi la sensazione di una meta-installazione. Guardando all’allestimento, quali sono state le finalità sottese alla sua concezione?
LM: Diciamo che la mostra è stata concepita come un’unica grande installazione composta da varie costellazioni in stretta relazione tra loro. La concezione dell’allestimento ha previsto, per fare un esempio, che il lavoro sulla forma auto-generante di Canicola guardasse “materialmente” e metaforicamente a certe complessità del segno e della metamorfosi del segno di Guido Strazza, anche se i due artisti non si conoscevano. Strazza è peraltro un autore che ha oltre cent’anni e che risalta con opere di grande vitalità.
L’intenzione sottesa quindi, non era quella di imbalsamare i nomi di questi maestri storici – non a caso, in esposizione figurano produzioni esemplificative del loro percorso – bensì di dimostrarne ancora oggi la grande efficacia come artisti, come intellettuali, come creatori di un immaginario. A questo riguardo, come affermavo già, la produzione germinale di Santoro risalente agli anni Sessanta ribadisce un linguaggio rivoluzionario e pionieristico della forma-scultura rispetto all’arte del suo tempo. Anche Giulia Napoleone, con le sue pitture solo apparentemente monocrome, espone alcune opere degli anni Settanta che, in realtà, sembrano fatte da una giovane artista per la freschezza che emanano.
VG: Abbiamo parlato delle generazioni più storiche, parliamo invece di questa nuova generazione di artisti, alcuni dei quali – Andrea Polichetti, ad esempio – sono sovente protagonisti delle mostre a tua cura.
LM: Andrea Polichetti lo considero un compagno di strada e il mio incontro con Palazzo Brancaccio e con Contemporary Cluster è nato anche per merito suo, quando mi sono trovato a visitare il suo studio che si trova nei sotterranei del palazzo. Con lui ci siamo immediatamente compresi sulla mia idea di dialogo tra generazioni differenti e sul mio desiderio di non lavorare su nomi in qualche maniera abusati dal sistema dell’arte e delle mostre. Sono profondamente convinto, per esempio, che la relazione avverata in mostra tra i suoi lavori e le opere di Ninì Santoro sia davvero riuscita, come anche mi ha confermato la compagna di Santoro, Giovanna Martinelli.
VG: Tra le due artiste intervenute in Duale figura anche, rappresentativa della nuova generazione, Giulia Manfredi, autrice che, personalmente, trovo molto interessante. Le sue due installazioni (Geomanzia, 2019) svelano un articolato microcosmo rappresentato da aceri bonsai piantati su basamenti marmorei intarsiati di forme geometriche che investiga concettualmente la relazione antinomica tra naturale e artificiale, trasformazione e immobilità, vita e morte, micro e macro etc. – ed altre complesse antinomie. Su quale aspetto si gioca in mostra la relazione tra le opere di questa giovane autrice e il lavoro pittorico di Giulia Napoleone?
LM: In una sola delle sale di Palazzo Brancaccio – quella dedicata al dialogo tra le opere di Giulia Napoleone e quelle di Giulia Manfredi – si evidenzia un riferimento alla natura declinata sotto differenti aspetti. Nei lavori della Napoleone, la variazione pittorica dei blue può restituire l’idea di un ipotetico cielo che in realtà, come accade in tante esperienze di ambito analitico, rappresenta solo un pretesto per l’investigazione attorno ai confini del linguaggio della pittura. D’altronde tutto il lavoro di Giulia si concentra sulla genesi del segno e sulle sue complessità. Nell’installazione di Giulia Manfredi invece, esiste il rapporto tra la vita botanica – il bonsai che si trasforma e si modifica – e l’architettura delle forme geometriche marmoree incastonate nel terreno che agganciano e citano l’idea di architettura, di classicità. La Manfredi possiede infatti una grande capacità di articolare un pensiero attorno alle trasformazioni, non tanto del dato meramente naturalistico, ma di un concetto più espanso – filosofico, quasi mentale, o spirituale – di natura. L’altro fondamentale “duello” è quello tra Alberto Gianfreda e Giuseppe Spagnulo. Gianfreda ci fa comprendere che il gesto è esso stesso scultura, perciò rompere oggetti e vasi per poi rassembrarli significa ripensare il concetto stesso di materia scultorea, rielaborarla e con un’altra conformazione epidermica. Non è forse questo stesso impeto alla base di tutta la riflessione sulla trasformazione delle forme e sulle metamorfosi della materia al centro della cinquantennale ricerca di un maestro come Giuseppe Spagnulo, di cui tra l’altro Gianfreda è stato per un periodo allievo?