Nel celebre racconto breve di Jorge Luis Borges – non poi così breve, se si considerano i suoi canoni in termini di numero di battute – dal titolo Tlön, Uqbar, Orbis Tertius il protagonista e narratore della storia – una sorta di alter ego dello stesso autore – si immerge alla scoperta della lontana regione di Uqbar, le cui vicende vengono lungamente narrate all’interno di una bibliografia immaginaria della misteriosa città di Tlön. La letteratura che la riguarda è una finzione nella finzione, una costruzione labirintica che avvicina il mondo reale a quello di fantasia, sino a sovvertirne gli equilibri. In questo continuo meccanismo di labile confine tra ciò che appare come oggettivo, per poi rivelarsi sotto la lente filtrante della propria soggettività, si muove il lavoro dell’artista spagnola Dora García, originaria di Valladolid e che oggi vive e lavora a Oslo.
Per il suo ultimo progetto, ospitato negli spazi del Mattatoio di Roma (fino al 9/1/22) l’artista sviluppa una moltiplicazione di percorso che si sdoppia in modo perfettamente parallelo tra i due padiglioni 9A e 9B, attorno all’idea di durata, ripetizione ed evento, nel quale lo spettatore non può fare a meno di immergersi. Il padiglione 9A ospita la proiezione del film Segunda Vez, nel quale l’artista intreccia politica, psicanalisi e performance. Al centro della narrazione la figura di Oscar Masotta, teorico cardine per l’avanguardia argentina tra gli Anni Cinquanta e Settanta. Il titolo riprende un racconto omonimo dell’autore Julio Cortázar, che narra il clima di forte tensione determinato dalle continue sparizioni in Argentina.
Un tempo – ripetuto e dilatato in momenti che sviluppano tante esperienze sempre diverse pur nella replica dello stesso atto performativo – è quello del padiglione 9B, nel quale si alternano una serie di momenti partecipativi attorno alle diverse stazioni create dall’artista. Al centro dello spazio due performer sono i protagonisti della performance Due pianeti si sono scontrati per migliaia di anni: l’uno all’interno del grande cerchio bianco, l’altro nel più piccolo cerchio nero, i due attori si sforzano si modificare la propria posizione mantenendo sempre la stessa distanza l’uno dall’altra, distanza stabilita prima di cominciare. In un valzer silente e fragile, i due evocano le distanze che inevitabilmente si pongono fra gli individui e quei muri, reali e metaforici, che li allontanano.
Intimo e delicato è il racconto – a tratti a voce alta, a tratti sussurrato sottovoce – della protagonista de Il labirinto della libertà femminile, le cui parole provengono da scritti esclusivamente femminili, da Antonia Pozzi a Elisa Donzelli, da Anna Akhmatova a Biancamaria Frabotta, da Mariangela Gualtieri ad Amalia Rosselli. La traduzione del testo del seminario di Lacan intitolato Le Sinthome diventa la base per la performance La partitura Sinthomo: ogni lezione del programma dedicato a James Joyce e il rapporto tra lingua e inconscio diviene nelle mani di Dora García una partitura disegnata dall’artista. Ogni testo, come accade in musica, è accompagnato da una serie di movimenti, il cui ritmo e la cui velocità vengono stabiliti direttamente dai performer. Lo spettatore è dunque invitato a entrare a piccoli passi in questo momento di studio della parola che si trasforma in movimento.
Capiterà allora, in questo labirinto denso, che si venga scelti per rispondere ad una serie di domande senza conoscerne il reale filo conduttore: solo l’ideatore della performance de La Sfinge conosce tutti i segreti del grande enigma. Il protagonista de Il messaggero cerca disperatamente aiuto nel pubblico degli spettatori per poter decifrare un messaggio apparentemente incomprensibile scritto su di un pezzo di carta. Quasi invisibile è il piccolo oggetto, simile ad una moneta d’oro, che tiene tra le mani il performer de Il piccolo oggetto “a”, omaggio che viene fatto cadere da un pugno chiuso, pronto ad aprirsi per lasciar intravedere quella brillante sorpresa.
Un labirinto che non è quell’aggrovigliarsi di fitti nodi di percorsi, di strade lontane da quella maestra, che finiscono per intersecarsi sino al punto di arrivo finale. O forse sì, forse quella linea retta che sembra essere così soggettiva è effettivamente la versione più oggettiva del reale di tutti i mondi possibili.