Il lavoro di Nathalie Djurberg e Hans Berg approda per la prima volta a Bergamo con la mostra Rites of Passage, visibile nelle sale della Porta di Sant’Agostino fino al 31 marzo 2019. Il duo svedese, vincitore nel 2009 del Leone d’argento alla Biennale di Venezia, presenta per l’occasione tre opere video e due sculture. Le proiezioni immersive occupano il centro della sala, scandendo una sorta di passaggio, transito della coscienza umana; le sculture laterali – volatili pennuti variopinti – animano lo spazio cinquecentesco e scandiscono il tempo grazie a un gioco di luci.
Misurandosi con il significato storico e la funzione originaria della Porta, gli artisti inscenano in Rites of Passage una ritmicità in continua oscillazione: dall’alba al tramonto, dall’esterno all’interno, dal consueto al recondito. Grazie all’utilizzo della tecnica dello stop-motion, una gestualità ripetuta si frammenta all’interno di uno scenario ipnotico e grottesco. Un labirinto infestante. Una metafora segreta. Una ritualità interiore e occulta, profondamente umana.
Curata da Stefano Raimondi e Claudia Santeroni, la mostra è promossa dal Comune di Bergamo ed è realizzata da The Blank, Bergamo Film Meeting e Lab 80 film in occasione della 37ª edizione di Bergamo Film Meeting, all’interno della sezione dedicata alle contaminazioni tra cinema e arte contemporanea.
Segue l’intervista di Irene Sofia Comi ai curatori –
Irene Sofia Comi: Come si articola il percorso espositivo di Rites of Passage?
Stefano Raimondi: Come una favola nera senza finale, un’esplorazione tra ciò che è esterno e quello che è inconscio, un viaggio interno al proprio essere, tra pulsioni opposte, dove immagini in movimento, suoni, luci, sculture concorrono a creare un corridoio mentale.
ISC: In particolare, come si relazionano tra loro i video in proiezione, che sono il perno attorno al quale ruota la mostra, e i due elementi scultorei?
SR: Le sculture Sunrise e Sunset definiscono la cornice temporale. Non in senso solamente consequenziale, dall’alba al tramonto, ma come una temporalità psichica che collassa, alba in tramonto. Le proiezioni e la piattaforma di tappeti antichi su cui ci si può sedere sono invece il territorio, la casa dentro la porta, l’io dentro l’io.
ISC: A vostro modo di vedere, la ricerca sull’animo umano di Djurberg e Berg attraverso questi due linguaggi si sviluppa in una sorta di osmosi o, invece, video e sculture vivono in modo autonomo l’uno dall’altro?
SR: Proprio come l’uomo, possono vivere benissimo sempre insieme, benissimo sempre da sole oppure condividere dei tratti di un percorso.
ISC: Nell’elaborazione del progetto insieme agli artisti, com’è stato misurarsi con uno spazio così connotato e ricco di storia, la cui architettura risale al Cinquecento?
SR: Senza lo spazio dell’antica Porta Sant’Agostino, luogo “frontaliero” e custode della città antica di Bergamo, probabilmente non ci sarebbe stata questa mostra. Parliamo di due artisti che solo nell’ultimo anno hanno avuto delle mostre enormi in musei di tutto il mondo, con risorse assolutamente non paragonabili alle nostre. Sapevamo che uno spazio così diverso, archetipo e antico poteva essere di grande interesse per loro.
ISC: Passiamo ora a una domanda piuttosto consueta, mi piacerebbe approfondire la scelta del titolo. Com’è nato?
Claudia Santeroni: In realtà la tua domanda mi dà modo di dare una risposta insolita:
la mostra, nelle intenzioni iniziali di Stefano e mie, avrebbe dovuto intitolarsi Am I welcomed here?, un titolo-domanda desunto da uno dei “baloon” dei video (Am I allowed to step on this nice carpet, 2018). Ci piaceva l’idea che il titolo contenesse un interrogativo e che contestualmente fosse una riflessione sul ruolo dell’arte contemporanea in generale ma anche in relazione alla vita culturale di una città come Bergamo. Nathalie e Hans hanno però optato per Rites of Passage e, considerando il percorso che affrontiamo annualmente per organizzare questa e altre mostre, ci è parso che questo riferimento al rito, al passaggio, e all’idea di soglia (che si lega allo spazio di Porta S. Agostino) fosse perfettamente pertinente.
ISC: In esso sono tra l’altro presenti sia l’idea di rito che l’idea di passaggio, due concetti inscindibili tra loro. Penso in particolare al fatto che la ritualità, per essere tale, deve necessariamente esistere come gestualità, che avviene in uno spazio, e come ripetizione, che avviene in un tempo. Cosa ne dite? Pensando all’articolazione della mostra e alla sua modalità di fruizione, vi ritrovate in questa lettura?
CS: Porta S. Agostino è stata storicamente l’accesso a Bergamo: quando il Campanone, il campanile di Piazza Vecchia, suonava i suoi cento rintocchi serali, cosa che accade tuttora, era il segnale per indicare il coprifuoco e la chiusura delle quattro porte di accesso alla città.
C’è quindi una ritualità insita nello spazio che si riverbera nel tempo, cui gli artisti hanno prestato attenzione.
ISC: I lavori di Djurberg e Berg presentati in quest’occasione s’inseriscono all’interno di Bergamo Film Meeting, giunto ormai alla 37ª edizione. Come s’inseriscono i lavori all’interno di questo programma più ampio? Di quali aspetti tenete conto?
CS: È ormai da anni che The Blank collabora con Bergamo Film Meeting: siamo partiti da piccoli eventi e adesso ospitiamo insieme Nathalie Djurberg&Hans Berg, che arrivano dopo Keren Cytter, Deimantas Narkevicius, Franco Vaccari, Jonas Mekas. Questa crescita condivisa è data dal profondo impegno che mettono entrambe le realtà di anno in anno per strutturare la programmazione e dall’appoggio del Comune di Bergamo. Generalmente iniziamo a confrontarci con un anno di anticipo rispetto agli artisti e come inserire il loro intervento nella programmazione del Festival: oltre alla mostra, teniamo molto al momento del talk, che quest’anno si è tenuto il 9 marzo nel cinema San Marco.
ISC: Per concludere, sarebbe bello pensare alla mostra anche attraverso una descrizione tutta vostra, per immagini o sensazioni, proprio come spesso fanno le opere di Djurberg e Berg, facendoci immaginare a occhi aperti. Mi “regalereste” una suggestione di Rites of Passage?
CS: Rites of Passage si compone di due sculture, Sunrise e Sunset, in cui due volatili planano su una scrivania e guardano esterrefatti la luce che ne illumina il volto. Immagino che colui che era seduto alla scrivania, forse noi stessi che guardiamo, si sia alzato e nel frattempo questi due animali siano atterrati sul tavolo; è l’incongruo che incombe e incalza, l’imprevisto che ci raggiunge osservando con stupore quanto a noi pare ordinario. A Sunrise e Sunset si associa una triade di video: In Am I allowed to step on this nice carpet, dove assistiamo al manifestarsi di una serie di creature in una stanza soffice, invasa da cuscini; è forse la nostra mente nella quotidianità, dove volenti o nolenti s’intrufolano pensieri e avvenimenti che respingiamo quando dovremmo invece imparare ad accoglierli. Favola e infanzia si mescolano e s’innestano tra loro, facendone emergere gli aspetti più morbosi e ricordandoci che le favole non sono giochi per bambini, ma che esiste sempre un Dark Side of the Moon, che sarebbe raccomandabile non occultare. One need to be a House, the brain has corridors, realizzato con una prospettiva in soggettiva che ricorda un incrocio tra il videogioco DOOM e Smack my bitchup dei Prodigy ci porta nelle zone più periferiche della nostra mente, cunicoli alla Trainspotting in cui anziché sprofondare nel tappeto, lo attraversiamo inconsapevoli.