Nell’apprendere la notizia della nuova mostra organizzata da P420 a Bologna, qualcuno potrebbe rimanere spiazzato dal sapere che Filippo de Pisis ne costituisce il fulcro fondamentale. Tale reazione potrebbe derivare da domande del tipo: “Cosa ci fa un artista che ha iniziato a dipingere oltre un secolo fa in una galleria d’arte contemporanea?”. Ad alimentare simili dubbi, ci sarebbero poi le tante operazioni-specchietto per le allodole che sfruttano il clamore di certi nomi per imbastire argomentazioni precarie e traballanti, sprovviste di fondamenta solide e coerenti.
Smorzo sul nascere eventuali perplessità del genere, affermando che, a mio parere, non è questo il caso. Come scrive Davide Ferri nel testo che accompagna la mostra – ve ne sono altri due firmati dagli artisti Luca Bertolo e Merlin James – Di semplicità e di brivido si fonda su un dialogo “non dogmatico e non filologico”, dettato non da uno spirito speculativo, e nemmeno da un opaco senso di nostalgia. Il progetto, infatti, pone sì de Pisis al centro del discorso, ma estende quest’ultimo alla personalità di sette artisti internazionali – tutti assolutamente vivi e tutti fermamente dediti al medium pittorico – chiamati a interagire in maniera libera e spontanea col nostro: si tratta degli americani Richard Aldrich e Michael Berryhill, del già citato Luca Bertolo, dell’inglese Paul Housley, del gallese Merlin James – anche lui citato prima – dell’irlandese Mairead O’hEocha e dell’olandese Maaike Schoorel.
Partendo dal presupposto che di arte contemporanea si tratterebbe comunque, anche nel caso in cui fosse il solo artista ferrarese a guidare le redini – vedasi qualsiasi manuale di storia dell’arte – e stroncando, così, sul nascere qualunque ipotetico dubbio iniziale, il senso della mostra sembra risiedere proprio nella volontà di sfatare certi luoghi comuni, in primis quello secondo cui la fase più interessante di de Pisis sia da circoscrivere soltanto agli anni Venti e Trenta del Novecento. È per questo che le opere esposte – dipinti e lavori su carta – fanno riferimento soprattutto agli anni successivi, a quando, cioè, de Pisis abbandona definitivamente Parigi per stabilirsi in maniera continuativa in Italia (1939).
“L’impressione è che quello che accade dopo il suo definitivo rientro in Italia, sia una specie di ‘dopo sbornia’ – afferma Ferri – di prodromo a una fase matura ed esaltante, con un carattere zigzagante, tortuoso”, che in pittura si manifesta con “una forma quasi incontrollata […] un febbrile desiderio di impossessarsi delle cose e della realtà”. Desiderio, questo, che sembra essere condiviso anche dai co-protagonisti della mostra, invitati a duettare, ognuno a suo modo, con quello che Giorgio de Chirico definì “l’uomo più originale del mondo”.
Rifacendomi all’immagine dello spartito suggerita dal comunicato stampa, è come se le melodie dei sette viaggiassero all’unisono insieme a quella di de Pisis, unendosi in componimenti armonicamente equilibrati e contraddistinti da sfumature sempre differenti.
Così, il connubio Aldrich – de Pisis si fonda su “un movimento che combina incessantemente pieni e vuoti”, in un ritmo oscillatorio che alterna fasi di allontanamento e di avvicinamento al dato sensibile. Stessa alternanza si riscontra nell’opera del duo Schoorel – de Pisis, sebbene “le piccole macchie e i colpi di pennello” del primo siano riconducibili, come scrive Ferri, alla medesima matrice floreale del secondo. La coppia Housley – de Pisis sembra, invece, improvvisare per ottave, essendo il primo “il più depisisiano tra gli artisti in mostra” – il tocco, nel suo caso, è, però, leggermente più vibratile e nervoso rispetto a quello del secondo. Il componimento che coinvolge Bertolo – de Pisis, oltre a presentare una gamma similare di soggetti, sembra svolgersi proprio su quel “registro dell’antigrazioso” descritto dallo stesso artista milanese, essendo fondato su un’analoga rapidità del “pennello che si scarica. Come un fucile”. L’accoppiata James – de Pisis dà vita alle composizioni più eterogenee della mostra, considerata “la varietà stilistica […] che caratterizza la poetica” del primo, come evidenzia Ferri. Il duo Berryhill – de Pisis sembra formato, invece, da solisti che non rinunciano a occupare le prime linee del palco, essendo entrambi affascinati da “un primo piano molto ravvicinato” e da una concezione di sfondo simile a “una specie di proscenio teatrale”. Stesso dicasi, infine, per la coppia O’hEocha – de Pisis, con i fiori del primo che emergono improvvisamente dalla base del quadro, senza fornire suggerimenti sulla loro origine o ubicazione.
Se volessimo sintetizzare in una frase i temi esposti in Di semplicità e di brivido, potremmo dire, in conclusione – con le parole di Merlin James – che non si ha “la sensazione che si tratti di cose specifiche e reali, osservate e registrate sulla tela, sembrano piuttosto dimensioni suggerite o evocate attraverso la nozione e la notazione”. Malgrado questo, come ammette poi James, si ha comunque “l’impressione che la realtà sia rimasta in qualche modo impressa sul piano pittorico”, essendo le opere in grado di suggerirne consistenza, odori, atmosfera, rumori. In fin dei conti, oltre a dimostrare quanto l’opera di de Pisis non costituisca acqua passata rispetto alle ricerche più attuali – e questo è un altro cliché sfatato – il discorso finisce sempre lì: sull’esaltare l’estremo vigore atemporale della pittura, che, per quanto se ne possa dire, sfugge a qualsiasi profezia lieta o catastrofica, o a qualunque tentativo disperato di agguantarla.