Testo di Aurelio Andrighetto —
Carlo Fossati è stato direttore artistico di e/static e blank a Torino dal 1999 al 2018, due spazi, come li definisce lui stesso, “di accadimento (tra progetti espositivi, performance di varia natura, concerti e altro ancora) […] luminosi luoghi dell’anima, alteri e inafferrabili, sempre cangianti, durante le stagioni e ad ogni ora del giorno”. L’ultima visita a questi luoghi è avvenuta nell’arco di luce del 21 giugno 2018, giorno del solstizio d’estate. Ad attendere i visitatori le opere di Giovanni Anselmo, di Rolf Julius e di Terry Fox, tre dei numerosi artisti che hanno partecipato all’avventura di e/static e blank .
Quanto è accaduto in questi spazi continua ancora ad accadere in una pratica di ascolto e visione, che per Fossati è quotidiana. Percepisce vagamente qualcosa e scatta una fotografia. La sua “impressione” è un evento oscuro e improvviso accompagnato da un altrettanto rapido gesto fotografico, che talvolta trascorre in un impulso alla scrittura. Sono scatti privati che invia agli amici per condividere la sua esperienza. Raramente diventano pubblici, come nel caso dell’immagine che segue.
Abbiamo conversato sul rapporto tra queste sue esperienze e la qualità di ciò che appare improvvisamente.
Per François Cheng la qualità di ciò che appare d’un tratto è l’esperienza di “un mistero senza fondo”. In Cinque meditazioni sulla bellezza (Bollati Boringhieri, Torino, 2007) Cheng riflette sull’esperienza del bello intesa come improvvisa rivelazione. È la bellezza del monte Lúshān che si mostra al diradare della nebbia. L’espressione in cinese “bellezza del monte Lúshān” significa “mistero senza fondo”. Questa apparizione inattesa del monte ha ispirato il poeta cinese Tao Yuanming, vissuto tra il IV e il V secolo, che ha composto un famoso distico: “Colgo i crisantemi vicino alle siepi dell’Est / Ed ecco che, noncurante, mi accorgo del monte del Sud [nel momento in cui la nebbia si dirada]”. Come la nebbia che si dirada, le fotografie scattate con rapidità e “noncuranza” da Fossati rivelano un “mistero senza fondo”?
Qualcosa si mostra sgusciando, slittando da un medium all’altro. Il trasalimento di Fossati è nel secondo sguardo mediato dalla fotografia, uno stupore che poi trascorre nella scrittura e da lì in una dimensione enigmatica, quanto gli esercizi d’immaginazione inseriti nel libro Allestire una mostra, e altre attività apparentemente inutili (storie di e/static e blank, 1999-2018), di prossima pubblicazione. Leggendo i suoi testi (estatic.it/blog/killing-floor e leppilampilabors) la sensazione è infatti di un ulteriore scivolamento verso qualcosa di indefinito e sfuggente, inafferrabile come l’“impressione” da cui è attratto.
Anche le “impressioni” di Medardo Rosso balenano in un attimo e poi fuggono, chissà dove. Rosso le cerca nella memoria passando da un medium all’altro, dalla scultura alla fotografia. Modella, forma e stampa in gesso o in cera i suoi “scherzi di luce” per poi fotografarli e inseguirli oltre la fotografia, alla ricerca dell’“impressione” sfuggente che lo aveva colpito. In camera oscura Rosso assiste a una magica rievocazione delle apparizioni a cui aveva assistito. Sotto il velo liquido e semitrasparente degli acidi vede affiorare i suoi “scherzi di luce”. Dopo lo sviluppo e l’arresto, il fissaggio fotografico congela l’attimo in cui l’immagine si rivela e allora Rosso gratta, incide, disegna, colora, sporca e ritaglia la stampa fotografica nel tentativo di afferrare l’effetto che sempre gli sfugge perché inafferrabile, breve e transitorio. A questi “trasferimenti” Paola Mola ha dedicato numerosi studi (Rosso. Trasferimenti, Skira, Milano, 2006; Rosso. La forma instabile, Skira, Milano, 2007; Medardo Rosso. Catalogo ragionato della scultura, Skira, Milano, 2009).
Ne parlo con Mola, sorpresa di trovare in queste riflessioni il riscontro di una sua intuizione sulla presenza dell’oriente nell’opera di Rosso. Con un balzo improvviso, come spesso capita nel corso irregolare di una conversazione, si passa ad altro. Mola mi racconta di un matematico della Normale di Pisa che le ha chiesto tutti i saggi su Constantin Brancusi da lei scritti per studiare alcune curve matematiche. Il docente ritiene siano quelle che vediamo in alcune opere dello scultore e sospetta che la bellezza delle intuizioni matematiche sia in relazione con quella di queste curve. Fin qui niente di nuovo (Paul Dirac, La bellezza come metodo. Saggi e riflessioni su fisica e matematica, Raffaello Cortina, Milano, 2019). La novità è che il bello quantitativo, che nasce dalla possibilità di commisurare estensioni diverse, nelle opere di Brancusi si coniuga ai fugaci riflessi della luce sui bronzi, che l’artista insegue passando dalla scultura alla fotografia attraverso il cinema. Alcune riproduzioni fotografiche di Leda, esemplare in bronzo, sono state ricavate dai fotogrammi di un film girato da Brancusi mentre la scultura ruotava su una base.
La qualità di ciò che appare ha aspetti molto diversi tra loro. Nell’opera di Brancusi, la bellezza dell’improvvisa apparizione della luce nel fotogramma, come quella del monte Lúshān, che per Cheng “è un tutt’uno proprio dell’unicità dell’istante” (p. 17), convive con la bellezza quantitativa dei classici, insieme ad un tipo di bellezza ancora diverso, riferito alla trasfigurazione della materia operata dalla luce. L’estetica del simbolo, che ha una radice profonda, forse millenaria, nel medioevo trova nella luce il suo oggetto privilegiato. La claritas diventa una categoria importante del bello nelle arti visive. In breve, nell’opera di Brancusi convivono il tralucere della materia riferito all’estetica del simbolo, la “bellezza [orientale] del monte Lúshān” (l’improvviso apparire che sorprende e lascia stupefatti) e quella delle curve matematiche. D’altra parte anche le intuizioni di cui scrive Dirac hanno a che fare con la bellezza delle equazioni (La bellezza come metodo, p.125) e al tempo stesso con quella del lampo improvviso e inesplicabile che illumina la mente.
Anche gli “accadimenti” che hanno avuto luogo nei due spazi di e/static e blank, in via Parma e in via Reggio a Torino, sono inesplicabili, quanto mutevoli. Nella loro instabilità conservano un equilibrio precario o dinamico, come quello che permette al nostro corpo di muoversi (l’equilibrio dinamico consiste in uno spostamento del baricentro del corpo con conseguente perdita e riacquisto dell’equilibrio). Molti anni fa Fossati mi aveva inviato, senza commentarla, l’immagine della copertina di un CD dei Nirvana in cui Kurt Cobain sta cadendo.
Equilibri precari, fugaci apparizioni e il mistero che permea il tutto. I “luminosi luoghi dell’anima, alteri e inafferrabili, sempre cangianti”, nei quali Fossati ha lavorato dal 1999 al 2018, hanno costituito un’esperienza incongrua, se non addirittura imbarazzante e sconveniente rispetto alle correnti strategie di produzione, distribuzione e consumo dell’arte. Imbarazzante può essere anche utilizzare il termine “bellezza”, un’espressione fuori tempo rispetto alla cultura cosiddetta alta e assolutamente logora rispetto alla cultura di massa. La qualità di ciò che appare potrebbe anche non avere un rapporto con questo termine.
Lasciamo l’esperienza del “mistero senza fondo” senza una definizione, ma non senza l’istante in cui sia possibile assistere al suo svelarsi improvviso. In un’intervista rilasciata a Luigi Grazioli nel 1982, il poeta Milo De Angelis assegna a questo istante una posizione nello spazio rendendolo abitabile: “da una parte c’era l’esigenza di giungere all’estremo limite, al secondo prima della morte: dall’altra c’era la possibilità di allargare indefinitamente questo secondo, di abitarlo”. Si potrebbe dire che, come il punto geometrico rappresenta ciò che non una dimensione nello spazio (ha solo posizione), l’istante rappresenta ciò che non ha durata nel tempo. Per questa ragione può essere “abitato” nell’arte del presente così come in quella del passato e anche in ciò che arte non è.
Nella poesia di De Angelis o nella mente di Dirac la nebbia si dirada e improvvisamente appare il “mistero senza fondo” o, se vogliamo conservare un’espressione caduta in disuso, la “bellezza del monte Lúshān”, combinata al metro dei classici, all’estetica del simbolo e chissà a che altro ancora. Ancora più imbarazzante del termine caduto in disuso, nelle meditazioni di Cheng (che filtra la concezione orientale della bellezza attraverso quella occidentale) ne troviamo un altro assolutamente intempestivo e proprio per questo degno di attenzione: “il nostro senso del sacro, del divino proviene non dalla semplice constatazione del vero […] ma piuttosto dalla constatazione del bello” (p. 21).