E’ in corso, fino al 30 novembre, Early Works 1980 – 1984, la mostra di Olivo Barbieri ospitata al Monastero di Astino (Bergamo), a cura di Corrado Benigni. L’esposizione presenta per la prima volta insieme 35 fotografie realizzate dal grande autore emiliano raffiguranti prevalentemente l’Italia, dai grandi centri urbani alle piccole città, colte nei momenti di vita quotidiana dei suoi abitanti.
In occasione di questa mostra, pubblichiamo la conversazione con Olivo Barbieri di Mauro Zanchi
Mauro Zanchi: Attraverso Real Worlds (2008-2013) hai sondato le possibilità del percepibile. Che cos’è la realtà e quante altre sono attorno a noi o ci contengono? Le più interessanti ossessioni di Philip Dick sono entrate in alcuni tuoi lavori?
Olivo Barbieri: Come le scienze cognitive sottolineano con insistenza, percepiamo una parte infinitesimale di quanto ci circonda. L’ineluttabilità del punto di vista tradisce continuamente, imponendoci significati ortogonali. Dovremmo scavalcare la quinta teatrale dei nostri pregiudizi.
MZ: Come ti rapporti con le opere del passato, con i capolavori dei musei e con le tracce della storia, per mantenere vivo il respiro che continua a muovere questioni, da millenni in sospensione nel tempo e nello spazio?
OB: Ho sempre considerato i musei con sospetto: sono autentiche le opere? E i valori culturali, etici e economici attribuiti, coerenti? I luoghi museali e la cultura in generale sono sintatticamente parchi tematici della consunzione. Traslando, tutte le immagini sono contemporanee. Dovremmo perciò eliminare il punto di vista, sostituirlo con un punto d’essere.
MZ: Come hai condotto (e conduci) il processo dell’appropriazione delle immagini – nella costruzione di una personale visione – tra prelievi da opere altrui e creazione di nuove possibilità immaginative?
OB: La memoria, mi interessano le immagini che esplicitano in che modo ricordiamo qualcosa, più delle immagini che sono qualcosa.
MZ: L’Occidente è ancora decifrabile attraverso le immagini?
OB: Certamente lo è o potrebbe esserlo. Dobbiamo fare però i conti con tante quinte teatrali da scavalcare. Smettere soprattutto di confondere l’immagine con la realtà. La realtà non esiste, esiste solo l’immagine che la rappresenta. L’oriente è importante e a volte l’unico modo per capire l’occidente.
MZ: Mi interessa molto il rapporto tra idea e traduzione formale, l’equilibrio sospeso o il cortocircuito nell’intenzione concettuale. Mi riferisco per esempio all’utilizzo del fuoco selettivo o alla convivenza nella stessa immagine di positivo e negativo.
OB: Sono tentativi di smontaggio dell’immagine. Di capirne il funzionamento e di farla funzionare diversamente. Meccanismi attivi, pensanti, inediti.
MZ: Come stai sul crinale tra fiction e reale? Le tue immagini site specific_, riprese dall’elicottero e con il fuoco selettivo, spostano un dato reale in qualcosa che pare una visione artefatta, come se per esempio il Colosseo e le persone viste dall’alto fossero oggetti in un plastico. E così pure le fotografie dove sono sovrapposte le immagini del negativo e del positivo sembrano spostare la percezione verso una visione forse onirica.
OB: Di onirico non c’è nulla: tento riproponendo la forma della città contemporanea come plastico in scala, o come rendering o ritornando al disegno, di ridiscuterne la progettazione.
Le immagini sono soltanto una messa in codice del reale, mi interrogo su quanto reale contengano e di quanto gli strumenti percettivi di cui disponiamo siano atti a prospettare il futuro.
MZ: Nel percorso interessato alla luce artificiale – da Viaggio in Italia (1984), a Notte (1991), Illuminazioni Artificiali (1995), Virtual Truths (2001), fino a Ersatz Lights case study #1 east west (2015) – hai lasciato trasparire anche altre luci, quelle che sono percepite e veicolate dal sentimento di chi le osserva. Ci parleresti di queste sottili aperture di rappresentazione, che inducono nuove chiavi di lettura e di riflessione?
OB: L’osservatore è la visione, è imprescindibile, stabilisce il valore e il senso di ciò che osserva. Non sappiamo cosa siano le immagini e perché ci attraggono così tanto. Le scambiamo semplicisticamente per l’oggetto che rappresentano. Manchiamo drasticamente di strumenti e di formazione interpretativa. Da secoli erroneamente riteniamo che il nostro specchio interiore contenga tutto.
MZ: Come immagini la notte a colori e i surrogati solari delle città nel futuro?
OB: Non credo che la notte a colori avrà un grande futuro. Come la fotografia, il cinema e la nascita delle megalopoli è un tema rilevante del secolo scorso.
MZ: Dalla fine degli anni Settanta, hai indagato anche se le piazze metafisiche di De Chirico esistevano veramente o se erano una sua invenzione.
OB: La metafisica non mi interessava particolarmente. Ho cercato di capire se alcuni immaginari pittorici fossero frutto di assoluta/astrusa invenzione o se fossero rintracciabili nel paesaggio.
MZ: Ci parleresti della serie Early Works (1980-1984) esposta ora nella mostra di Astino? Soprattutto seguendo una tua definizione, ovvero nell’ottica che la considera “una camera anecoica delle immagini”.
OB: Sono immagini trovate in un’epoca in cui scoprivi un luogo senza averlo visto prima servendoti di Google maps, Street View etc. Immagini non preannunciate da un’eco pervasivo. Sono immagini di luoghi periferici o di provincia, allora considerati non importanti, perciò invisibili. Interni di chiese, bar, piccole piazze, bordi della campagna.
MZ: Oggi, dopo numerosi altri percorsi di indagine, come leggi l’esperienza di Viaggio in Italia?
OB: Viaggio in Italia nel 1984 sancisce un uso possibile delle immagini fotografiche non solo documentario. Enuncia la possibilità di fare saggistica con un apparecchio fotografico.
MZ: Cosa di quell’esperienza può essere ulteriormente spostato con altre declinazioni ed evoluzioni dalle attuali e prossime generazioni di artisti?
OB: Difficile dirlo. Ogni generazione innesca un dialogo univoco, segreto e indecifrabile per quelle precedenti. Fondamentale tenerne conto. Col digitale le declinazioni apparentemente si moltiplicano, da un lato rende tutto possibile da un altro tutto inutile in quanto possibile. Richiede uno sforzo di immaginazione/curiosità moltiplicabile.
MZ: A distanza di anni che cosa è emerso dalla tua ricerca?
OB: Credo di aver capito/visto, che la traccia di colore lasciata da un pennello e da un pixel elettronico si assomigliano molto.