Abbiamo incontrato Gao Xingjian, premio Nobel per la Letteratura nel 2000, per porre alcune domande sul suo utilizzo delle immagini sia nelle opere letterarie sia in quelle visive. Siamo interessati ad approfondire il senso delle due parole coniate dal grande scrittore cinese: “cinepoema” e “cinepoesia”. Sostiamo in Après le déluge (2008), un’opera video quasi totalmente in bianco e nero, dove i personaggi si muovono con movenze della danza contemporanea, tra effetti sonori e dipinti realizzati dallo stesso autore, che costruiscono un paesaggio interiore, essenziale, zen.
Xingjian, nato nel 1940 a Ganzhou (nella Cina Sud-Orientale), utilizza “medium” differenti a seconda dell’emozione che vuole trasmettere o del pensiero che vuole esprimere: scrittura (narrativa, drammaturgia, poesia, saggistica), regia teatrale, cinematografia e pittura.
Mauro Zanchi: Après le déluge non è una video-opera, nemmeno un cortometraggio della tradizione cinematografica, è un racconto narrato coi movimenti del corpo all’interno di opere pittoriche realizzate con acqua e inchiostri. Ci può parlare della sua opera, che fonde vari linguaggi per cercare di dare vita a un’unità fra l’invisibile poetico e il “medium” tecnologico?
Gao Xingjian: In qualche modo è come se fossimo sempre solo agli inizi della ricerca cinematografica, nonostante sia già passato un secolo. La tecnologia è molto progredita, ma dal punto di vista artistico forse siamo un po’ ingabbiati in questa nuova codifica. Accade nel modo di vedere il Cinema, la fiction e anche i commenti della critica. Credo che dal punto di vista concettuale, nella progettazione del concetto, siamo indietro rispetto a quanto abbia già fatto la tecnologia. Abbiamo i piani, progetti, che possono essere rapportati alle parole nella scrittura. Con le parole si possono scrivere delle favole, dei saggi, narrativa o poesia. E quindi perché non utilizzare la stessa pratica nel cinema, proprio come si fa con le parole per scrivere poesia. È quello che io ho fatto. E se dovessi dare una definizione di un genere per le mie realizzazioni, io parlerei di “cinepoema”, o “cinepoesia”, perché tutto si compone, tutto non è soltanto forma, ma dietro tutto questo che si compone c’è sicuramente un significato poetico.
In Après le déluge ci sono tre elementi. È vero che manca la parola, però c’è il suono, l’immagine e la danza. Vediamo all’interno anche i miei quadri, immagini che hanno un loro proprio linguaggio. Poi c’è la coreografia della danza, che non è stata ideata per illustrare l’immagine, perché davanti e dietro all’immagine c’è la danza che ha una sua autonomia. La danza fisica, ma anche la danza del volto. Anche un volto, con le sue espressioni, può danzare. Poi c’è il suono e gli effetti sonori. E se uno ha pazienza può riuscire a vedere qualsiasi cosa, con una sua logica, in questi tre elementi che creano il linguaggio del mio film.
MZ: Oltre alla danza, la colonna sonora in questa sua opera ha una presenza forte, che detta il ritmo delle immagini. C’è una ragione concettuale dietro a questo voler affidarsi più a ciò che si viene a creare tra l’immagine e il suono?
GX: Le immagini devono prendere la loro autonomia e vivere per quello che sono nate per essere. Non utilizzo la voce umana e la musica per illustrare o per raccontare, ma perché hanno un loro peculiare significato. È un po’ come quando si ascolta una colonna sonora in un film, che ha una sua autonomia e una sua forza anche quando la si ascolta staccata dalla narrazione filmica. Tutto deve essere lavorato al contempo. Una non deve illustrare l’altra, ma scorrere in parallelo: la musica, l’immagine e la voce insieme. Allo stesso tempo la voce, la parola e la musica sono tutti elementi distinti. Normalmente, la parola bisogna capirla, invece la musica fa leva su un’altra sensibilità, e quindi uno è chiamato a reagire immediatamente. La parola è un elemento importante, la musica e il suono fanno riferimento alla sensazione, e poi c’è l’immagine, che è un terzo elemento complesso. Ognuno di questi tre elementi ha il suo ruolo determinante, vanno in parallelo, ma poi bisogna creare dei collegamenti tra di loro in modo armonico, per creare dei contrappesi. Questo è il mio modo di vedere l’opera filmica.
MZ: La presenza sonora nel suo “cinepoema” amplifica un senso di angoscia già espresso dalla danza nel bianco e nero dei suoi dipinti…
GX: Sì, qui è percepibile un senso di angoscia, un’angoscia veramente profonda per tutti quanti, visto quello che abbiamo di fronte agli occhi oggi, mentre stiamo vivendo il riscaldamento del pianeta. Tutti quanti dobbiamo provare questa angoscia universale, un’angoscia profonda, che è simile a quella che è descritta nella Bibbia, nel Diluvio Universale. Quindi dobbiamo chiederci che cosa possiamo fare. E non è sicuramente facendo passare una legge in parlamento, come ogni tanto propongono ora in uno stato ora in un altro, che potremo con le parole rallentare una catastrofe che è già presente. E quindi bisogna chiederci profondamente che cosa fare e come mettere in atto un cambiamento risolutore, contemporaneamente nella nostra interiorità e nel mondo che ci contiene.
MZ: Quindi niente parole vuote, ma affida alla sperimentazione con le immagini in movimento e alla musica l’evocazione di uno stato dell’animo umano tra attesa e reazione al diluvio?
GX: Ho sempre voluto, fin da quando ero bambino, realizzare dei filmati. A diciott’anni, quando ero studente, ho scritto la mia prima sceneggiatura. Avevo fatto molti tentativi, molti piani, ma tutti finiti male. Nessun produttore voleva utilizzare questi miei progetti, perché erano troppo distanti da come si concepisce normalmente il Cinema. Il Cinema è il nuovo mezzo del XX secolo e continua a svilupparsi ulteriormente e a evolvere. Adesso è diventato abbastanza sofisticato, ma la cinepresa è ancora utilizzata per raccontare, e la voce per descrivere. Il Cinema ci dà tantissime potenzialità, e ne ha ancora da darci, perché per me è un insieme di arti plastiche, di gioco attoriale, di fotografia, di immagini che si evolvono nella continuità di musica e di effetti sonori. Tutto è sincronizzato in questa nuova arte sincretica. Nel mio filmato cerco di andare oltre la narrazione normale, quindi io la cinepresa non la utilizzo per raccontare qualcosa o per registrare un evento.
MZ: L’autonomia rivendicata dei linguaggi nel suo Après le déluge non rischia in qualche modo di diventare preda di un non linguaggio, in rapporto con il grande Cinema?
GX: Il Cinema era già stato percepito negli anni Venti/Trenta – epoca dei grandi sognatori di un grande Cinema che non è mai riuscito a diventare tale – come qualcosa che già prescindeva dagli altri linguaggi, proprio rispetto alla possibilità di controllo. Gli inseguimenti dei film muti prevedevano elementi del superamento di quello che il linguaggio era, dove i corpi che correvano non dovevano far pensare “quello è buono, e quello è cattivo”. Non doveva proiettare tutta una sovrastruttura di saperi sociali o artistici. Erano solo puri corpi che correvano, manifestando un estremismo della forma. Per certi versi risultano essere più interessanti nel Cinema e nell’Arte quelli che sono gli elementi meno controllati. Forse anche la pura e semplice differenza di ombra, la sola distanza fra due oggetti o tra due vite, la trasparenza nell’aria. Queste cose sembrano più avanzate e poetiche del nostro tentativo di porci a confronto con il linguaggio, che ha il compito di raccontare o di evocare altri significati.