Un-site specific: la condensazione in una definizione di una relazione che si appoggia su spazi e tempi. Itinerante, poiché alla sua quarta formulazione e indivisibile dagli altri momenti che lo hanno costituito.
Conjunctive Tissue, a cura di Giulia Colletti, è il progetto dell’artista Marco Giordano che investe su un uso alternativo delle parole, parole che assumono un significato specifico in relazione al contesto. Un’ipotesi pratica posizionale di congiunzioni coordinate. Come messa in discussione della proprietà, Conjunctive Tissue traspone in diverse situazioni una co-paternità nella realizzazione dell’opera. Le combinazioni linguistiche si legano, oltre che tra loro stesse, in un rapporto con il visitatore.Dopo essere stato concepito durante la residenza artistica al Center for Contemporary Art (CCA) di Glasgow e in seguito presentato negli spazi di Civic Room a Glasgow e alla Lily Brooke Gallery di Londra, Conjunctive Tissue giunge a Palermo.
In occasione di Manifesta12 Collateral, lo spazio pubblico di Piazza Mangione, in particolare la facciata principale di KaOZ, diviene oggetto di un’interazione e di un intervallo. L’installazione tessile con lettere nere su tessuto bianco presenta i versi di una poesia che invita a riflettere sulla nozione di interstizio. Luogo dell’infrasottile, piccola fessura aperta tra due momenti, è un luogo intimo e pubblico che connette lo spazio della galleria al quartiere esterno della Kalsa. La continua rigenerazione del linguaggio da parte dell’artista permette un adattamento spontaneo e momentaneo. La porosità dell’intervallo tra fuori e dentro, coadiuvata dallo strato sottile del banner, chiede nuovamente una co-partecipazione. Al pari della stessa richiesta negli episodi di Glasgow.
“Può essere definito un esperimento ‘non specifico’, poiché condiviso con il visitatore – sempre più spesso un astante – al di là della coordinata temporale chiamata istante”, afferma la curatrice nel testo curatoriale del progetto.
Determinato, da determinare e determinabile il lavoro è un continuo gioco di compromessi. All’estremo del discernibile, nella trasparenza del tessuto ricco di sfumature nere date dalle lettere in movimento, si colloca un sempre possibile reale. Fuori dai confini si colloca la risposta ancora da leggere e che Giordano ci offre. Una risposta di re-immaginazione che vive di una sequenza di eventi, la stessa che nega l’idea di attimo e istante come nelle teorie sul tempo del neozelandese Peter Lynds.
Per entrare più nello specifico abbiamo posto alla curatrice e all’artista alcune domande.
Lisa Andreani: Che significato ha per te, in qualità di curatore, rielaborare la formulazione di un progetto in forme diverse e per luoghi diversi?
Giulia Colletti: Un progetto come Conjunctive Tissue muove da una commistione di prospettive – pubblico, artista, gruppo che gestisce lo spazio che di volta in volta ci ospita – che rende la sua formulazione di per sé polifonica. In questo senso, il mio ruolo s’innesta all’incrocio di relazioni attive e da attivare, semplicemente offrendo una lettura che possa armonizzare al meglio le diverse transizioni del progetto. Così è stato quando ho proposto a Marco Giordano di coinvolgere l’artista Sue Tompkins che, grazie alla sua performance ISOLA, ISOLA commissionata per l’evento finale dell’OpenLab presso la Civic Room di Glasgow, ha realizzato un’immersiva azione sonora partendo dalle oscillazioni dei banner installati nello spazio. O quando in quest’ultima iterazione a Palermo, abbiamo condiviso con il visitatore un’installazione pubblica. In realtà, Conjunctive Tissue muta nelle sue forme e nei suoi luoghi già nel momento in cui ci soffermiamo con Marco a speculare nel suo studio. Non si tratta di un esercizio formale, bensì di riflettere sulla nozione di rappresentazione (chi stiamo rappresentando? A che titolo possiamo intervenire in questo senso e non in un altro?), e di confutare la validità di coordinate assodate, come quelle che definiscono il ruolo dell’artista e del pubblico.
LA: Com’è stata in particolar modo la tua relazione con Palermo e Manifesta?
GC: Sebbene al momento io viva altrove, Palermo è la mia città. La mia relazione con questo luogo muove quindi da un piano intimo, e magari tendenzioso. Le riconosco pregi e limiti che, enfatizzati o soffocati, non hanno tardato a detonare in un’occasione di visibilità come quella offerta da Manifesta12. Per quanto riguarda Conjunctive Tissue, l’intenzione di sperimentare in una città come Palermo è nata quasi subito anche in Marco, la cui famiglia ha origini siciliane. In questa città, la relazione tra sfera pubblica e privata è storicamente labile; lo spazio comune è investito da una sovrapposizione di suoni, odori e gestualità, in quanto è vissuto come luogo in cui ciascuno ha il diritto (e raramente l’onere) di manifestare la propria sovranità. Il nostro interesse si è concretizzato nel momento in cui il collettivo DimoraOZ ci ha invitati a presentare il progetto nel loro spazio di Piazza Magione, selezionato come evento collaterale di Manifesta12. Il nostro rapporto con la biennale è avvenuto pertanto in via indiretta. Ma quello con gli abitanti del quartiere della Kalsa è avvenuto in linea diretta. Le loro suggestioni, perplessità, e prese di posizione hanno offerto una lettura del progetto a tratti più partecipativa degli esperimenti precedenti. L’interpretazione della poesia cucita da Marco è divenuta una delle più urgenti impellenze da risolvere nella piazza!
Lisa Andreani: Fra un sorso e un sorso, che cosa significa porsi come interstizio?
Marco Giordano: Con la frase “Fra / un sorso / e / un sorso / in una / bocca / piena” ho voluto porre l’accento sull’intervallo tra due atti ripetuti. In questo senso il testo nella sua interezza restituisce un vuoto, intenzionalmente ambiguo e aperto a interpretazioni. L’intervallo, dal mio punto di vista, consegue a una sensazione di saturazione, data dal traboccare di un ipotetico liquido. Un simbolico senso di pienezza (ma anche di soffocamento) in cui tutti incorriamo.
LA: Come immagini l’interazione di questo spazio che hai creato con il suo fuori e la città di Palermo stessa?
MG: In realtà la scritta non nasce pensando direttamente a Palermo. Rendendo una mia riflessione personale pubblica e aperta, ho tentato di innescare una relazione con i passanti; spero che l’ambiguità della frase abbia invitato ad una lettura soggettiva. L’intervento non riguarda unicamente il pubblico, ma anche lo spazio. Il posizionamento del banner su una facciata esterna ha influito, anche in piccola parte, sull’architettura della piazza, cambiandone la percezione da parte dei locali – i quali individuano un elemento “altro” all’interno di un contesto ordinario – e dei non locali – i quali individuano un elemento “altro” all’interno di un contesto già di per se fuori dall’ordinario.