Sono passati più di vent’anni dalla messa in onda delle immagini delle Torri Gemelle e da quel 11 settembre la circolazione delle immagini di guerra è diventata sempre di più intermediale. Cinema, televisione, web e oggi piattaforme social, sono il risultato di una crescente diffusione della tecnologia digitale che ha generato una quantità sempre maggiore di schermi e dispositivi. Se il cinema è la messa in scena a posteriori, la televisione e il web hanno abituato lo spettatore all’immediatezza, al racconto per immagini in diretta solitamente mediate. Oggi, con il conflitto russo-ucraino in corso, si assiste di fatto alla prima guerra raccontata attraverso i social all’interno dei quali la narrazione si fa sempre più soggettiva, diretta e cruda. Allo spettatore, più o meno casuale e consapevole, non è proposta alcuna mediazione, alcun tempo di metabolizzazione visiva e di analisi.
È a questo tempo, ormai manchevole, che si rivolge l’ultimo progetto di Carlo Valsecchi in Collezione Maramotti in occasione di Fotografia Europea 2022. Risultato di un lavoro di circa tre anni, Bellum è il racconto di un viaggio tra quelle montagne che sono state lo scenario del primo conflitto mondiale. Una serie di venti fotografie, alle quali se ne aggiungo circa altrettante nel volume che accompagna la mostra edito da Silvana Editoriale, realizzate con il banco ottico tra inverni e primavere.
Nonostante il grande formato ad essere catturata dall’obiettivo è una piccola porzione rispetto all’immensità di quei luoghi. I paesaggi e gli alberi vengono presentati come nature morte nelle quali ad essere resa eterna sembra essere qualcosa di non visibile agli occhi. Gli unici rimandi visivi espliciti al conflitto, i soli appigli spaziali e temporali, sono oggetti storici come vecchi recinti, fortini abbandonati o ancora resti di cunicoli. Elementi che prendono forma nello spazio solo grazie alla luce alla quale Valsecchi affida il compito di far emergere le tracce storiche, tra neve e nebbia di quella che è ricordata dagli italiani come la “guerra bianca”. Alle immagini di città distrutte e violenza esplicita, l’artista preferisce i dettagli di ciò che resta di quel paesaggio di un secolo fa. Le montagne del nord-est italiano diventano rappresentazione simbolica del conflitto ancestrale tra uomo e natura, ma anche tra uomo e uomo.
Nel lavoro del fotografo bresciano il racconto del primo naufragio della civiltà del XX secolo assume così la forma di una narrazione per immagini densa di analogie visive e concettuali che la rendono composta anche da racconti e testi, seppure non esplicitati. Al pari delle serie dedicate alle architetture industriali, gli scatti realizzati da Valsecchi tra questi paesaggi sono appunti visivi per un racconto più ampio nel quale, in questo caso, la natura si fa architettura come in # 01151 Gallio, Vicenza, IT. 2020 o si antropomorfizza, mentre il costruito si ibrida con l’ambiente circostante come in # 01130 Asiago, Vicenza, IT. 2020.
Ed ecco allora che le grandi fotografie appaiono come finestre sul mondo – e sulla storia – grazie al bordo nero del negativo che le incornicia. La predominanza della luce rende però i segni di queste vedute ridotti e i vuoti creati da Valsecchi rendono le immagini più simili ad un telo di proiezione, ad uno schermo, spazio all’interno del quale è lo spettatore ad attribuire un significato alle immagini. Ne deriva un racconto del conflitto che è allo stesso tempo documentario (oggettivo) e personale (soggettivo). E così quel cumulo rappresentato nella fotografia # 01135 Rotzo, Vicenza, IT. 2020 assume agli occhi dello spettatore, per formazione culturale, la forma di una tomba.
Anche quando a predominare è il colore nero come nella fotografia di dimensioni ridotte rispetto alla maggior parte degli scatti in mostra # 01125 Roana, Vicenza, IT. 2020,è la luce a dare forma a quei vuoti all’interno dei quali l’occhio dello spettatore si posa (come la neve), prende tempo (come in trincea). Sono queste fotografie dai toni più scuri ad intervallare le bianche vedute collaborando così alla costruzione di una narrazione in forma astratta e intimamente estetica.
Nel white cube della Collezione Maramotti nulla è esplicito. È la dimensione del tempo (di produzione del lavoro, di fruizione, del mezzo stesso della fotografia) che permette a questi scatti di raccontare da una parte senza travolgere, senza fare propria l’estetica del conflitto, e dall’altra senza retoriche.