Ai Musei di San Domenico di Forlì approda l’unica tappa italiana di una grande mostra internazionale che racconta la civiltà planetaria del XXI secolo. Civilization (fino all’8 gennaio 2023) è un affresco ambizioso del presente e di tutte le sue contraddizioni. Oltre 300 immagini di 130 fotografi catturano i tratti somatici di una società modellata dalle scoperte scientifiche e dalle innovazioni tecnologiche, ma allo stesso tempo lacerata da disuguaglianze e da gravi problemi sistemici. La mostra curata da William A. Ewing e Holly Roussel con Justine Chapalay, già transitata da Seoul, Pechino, Auckland, Melbourne e Marsiglia, si evolve nella sua forma più completa con l’edizione italiana, che si avvale del supporto di Walter Guadagnini, Monica Fantini e Fabio Lazzari. Civilization è co-prodotta dalla Foundation for the Exhibition of Photography e dal National Museum of Modern and Contemporary Art of Korea di Seoul. Il percorso espositivo si articola in otto sezioni, corrispondenti ad altrettante tematiche che sono presentate come chiavi di lettura imprescindibili per comprendere più a fondo la contemporaneità e per prepararsi al mondo che verrà. La prima sala introduce la scansione di argomenti con una serie di immagini che parlano del passato, del presente e del futuro dell’umanità. Le Piramidi Nubiane viste dal ciglio di una strada di scorrimento di Richard de Tscharner e la fotografia scattata da Thomas Struth all’interno del Pergamon Museum di Berlino affollato di turisti proiettano le tracce di antiche civiltà in un mondo che nel frattempo è profondamente cambiato. Le quattro immagini di Robert Polidori restituiscono una panoramica a 180° che abbraccia una grande estensione del tessuto urbano della città di Mumbai, emblema di un presente sempre più sovraffollato. La fotografia di Vincent Fournier – un astronauta nel Centro Spaziale della Guyana pronto a varcare una soglia verso l’ignoto – apre invece ad un futuro pieno di opportunità, ma anche di incertezze.
La prima sezione, ALVEARE, ritrae la densità e l’estensione delle metropoli contemporanee. Il titolo stesso allude al fatto che, come nei sistemi sociali delle api, anche la città umana è una rete estremamente articolata, ricca di opportunità ma anche di criticità. La vista frontale di un complesso residenziale di Hong Kong, immortalata da Michael Wolf, fa pensare, in effetti, ad un gigantesco alveare brulicante di vita. I quartieri abitativi di Città del Messico, con i suoi 22 milioni di abitanti, sono un mare urbano che si estende a perdita d’occhio sul paesaggio collinare (Pablo López Luz), mentre dall’altra parte del mondo il Burj Khalifa è una nuova Torre di Babele circondata dal deserto con cui l’umanità sfida il cielo, forse senza motivo (Philippe Chancel). Cyril Porchet osserva dall’alto una folla oceanica riunitasi per un rito collettivo imprecisato; a causa della lunga esposizione, le persone si fondono l’una con l’altra in correnti di movimento. In SOLI INSIEME viene affrontato il doppio tema del sovraffollamento e dell’atomizzazione dei rapporti sociali indotta dall’era digitale. Una foto di Benny Lam guarda dall’alto ad un cubicolo di meno di cinque metri quadrati in uno slum di Hong Kong, nel quale vive una famiglia di quattro persone. Michael Wolf presenzia anche in questa sezione con una serie di piani ravvicinati, scattati dall’esterno dei vagoni della metro di Tokyo, di alcuni pendolari schiacciati contro i vetri. Al contrario, Kim Taedong ritrae la mesta solitudine dei lavoratori di Seoul in non-luoghi di passaggio tra la propria abitazione e il posto di lavoro.I militari nelle foto di Adam Ferguson sono colti nei momenti in cui comunicano attraverso Skype con i propri familiari; dal loro sguardo traspare tutta la consapevolezza della distanza che li separa da loro. Fotografi come Ann Mandelbaum e Paul Bulteel guardano alla società come un palcoscenico su cui i singoli individui adottano dei ruoli, più o meno goffamente. Se per Florian Böhm i luoghi adatti per registrare questi fenomeni sono i semafori pedonali, dato che in un gruppo di persone in attesa del verde si assiste ad una varietà di pose e attitudini che riflette le gerarchie sociali, nelle immagini di Olivier Christinat è il transito su una scala mobile a far emergere momenti privati ed autentici.
La terza sezione, FLUSSO, racconta lo spostamento nel mondo globalizzato di persone, materie prime, beni e denaro. Movimento ed energia sono i motivi ricorrenti di un mondo interconnesso: la composizione astratta di linee sinuose che scaturisce dalla foto aerea di uno svincolo autostradale californiano (Christoph Gielen) ha così un parallelo nell’intreccio dei fili elettrici delle strade di Tokyo (Andreas Gefeller). Mike Kelley fotografa per otto ore il transito degli aerei all’aeroporto di Zurigo, poi cuce le foto insieme così da materializzare il “flusso” di aerei sulla pista. Per fotografare un soggetto analogo, un terminal dell’aeroporto di Newark, Jeffrey Milstein opta piuttosto per una visione zenitale, che trasforma gli aerei posteggiati in una geometria radiale. Con una foto a lunghissima esposizione che riporta alle origini del medium fotografico, Dan Holdsworth opera in modo opposto rispetto a Kelley, annientando il flusso di automobili e di persone in una strada di scorrimento e ottenendo così la veduta spettrale di uno scenario post-atomico. Alejandro Cartagena sfrutta invece la capacità della fotografia di cogliere “il momento decisivo”, per dirla con Cartier-Bresson: si apposta su un ponte dell’autostrada e cattura il passaggio di furgoni e van che trasportano, in condizioni precarie, i lavoratori messicani che non possono permettersi il trasporto pubblico.
In PERSUASIONE sono passate in rassegna le strategie che il capitalismo ha sviluppato per indurre i consumatori ad acquistare prodotti, usufruire di servizi e adottare modelli. Un grande mezzo di persuasione sono i cartelloni pubblicitari: i punti di vista da cui Robert Walker fotografa Times Square annullano ogni senso di spazio e di profondità in favore di una sovrapposizione strato su strato di inviti al consumo, mentre in un’immagine di Natan Dvir un ignaro passante è accerchiato e ghermito dalle grafiche di un negozio di abbigliamento. La seduzione però può assumere molti altri volti, dai televisori all’interno di un centro commerciale che suggestionano una famiglia americana (Brian Ulrich), alle superfici metalliche ultra-lucide di prodotti di lusso, resi irriconoscibili dai loro riflessi baluginanti (Patrick Weidmann). Il retro del muro di schermi che trasmette in Polonia i funerali di Giovanni Paolo II è una presenza claustrofobica nell’immagine di Mark Power, dato che solo una striscia in basso lascia intravedere i fedeli dall’altra parte. Lo stand di una fiera d’arte contemporanea in un momento di calma (Andy Freeberg), i test tecnici in preparazione ad una convention repubblicana a Cleveland (Eric Thayer), gli studi deserti di una rete televisiva (Shigeru Takato) sono tre prospettive che mettono a nudo i meccanismi tramite cui si inducono idee e gusti nel pubblico. Un cartellone che invita ad un’esperienza 4D nello zoo di Detroit, sospeso sopra un tetro quartiere di periferia (Andreas Tschersich), parla del bisogno di evasione dallo scialbore della vita, alla base di molte strategie di marketing.
Dove la persuasione non arriva, subentra il CONTROLLO, inteso come manifestazione più o meno esplicita del potere che intimorisce e impedisce di agire liberamente. L’enorme bandiera americana che campeggia su una raffineria (Mitch Epstein) è un simbolo di potere non molto diverso dal National Heroes Acre di Harare (Zimbabwe), uno dei tanti monumenti rappresentanti i legami diplomatici tra l’Africa postcoloniale e la Corea del Nord che sono al centro degli interessi di Che Onejoon. Altri fotografi guardano agli spettacoli di propaganda del regime nordcoreano: Philippe Chancel ritrae una parata in cui migliaia di figuranti sollevano pannelli colorati che vanno a comporre l’immagine gigantesca di una pistola; Noh Suntag si concentra invece sull’estrema coordinazione di una performance di danza messa in scena durante un viaggio ufficiale della stampa estera nel Paese. In Occidente il potere si esplica in modo più subdolo in luoghi spesso nascosti e invisibili, come nel caso della sala riunioni del comitato esecutivo della FIFA, al terzo piano sotterraneo del quartier generale di Zurigo (Luca Zanier). Con “controllo” ci si può riferire anche all’ordine imposto dall’uomo alla natura per produrre in modo più efficiente, come nel caso dei campi ad irrigazione circolare fotografati da Edward Burtynsky in Arizona. Oppure, al rigore necessario per far funzionare la tecnologia alla base delle nostre vite: così la scheda di programmazione di una centrale elettrica si eleva ad essenza della nostra civiltà tecnocratica (Edgar Martins). O, ancora, alla sorveglianza esercitata a livello governativo sugli “irregolari”, evocata dalla foto di un campo profughi scattata da Richard Mosse da centinaia di km di distanza con una telecamera militare a rilevamento termico.
ROTTURA dà conto di crisi e conflitti che lacerano la civiltà planetaria, oltre che degli effetti catastrofici che la natura sta subendo a causa dello sfruttamento delle sue risorse. La sezione è introdotta da un’opera monumentale di Mishka Henner allestita orizzontalmente, che si compone di centinaia di fotografie satellitari di una distesa di giacimenti petroliferi in Texas. L’immagine di Mandy Barker, che a prima vista sembra ricordare una galassia, guardando più attentamente si rivela essere una composizione di fotografie di rifiuti prelevati dalle spiagge, che evoca piuttosto le isole di spazzatura che galleggiano nell’oceano. Un tema ben rappresentato da ROTTURA è quello delle frontiere e delle migrazioni. In un dittico di Alejandro Cartagena si intravedono attraverso la rete del confine tra Messico e Stati Uniti le sagome di una madre e di una figlia, rimaste separate. Nella foto di Pablo López Luz, scattata da un elicottero, la stessa frontiera appare come una cicatrice che sfregia la topografia della regione. Anche l’Europa è teatro da anni di simili criticità, dal campo di Calais (Mauricio Lima), alla frontiera greco-macedone (Gjorgji Lichovski). Alex Majoli sposta il suo obiettivo su un altro confine, ben più vicino: quello tra Italia e Slovenia, chiuso durante le prime fasi della pandemia per tentare di arginare l’espansione del Covid. Sono presenti anche immagini di fotogiornalismo di guerra, dall’Afghanistan all’Ucraina. Un corpus di fotografie può idealmente rappresentarle tutte: una rassegna di mine antiuomo da tutto il mondo di Raphaël Dallaporta, che ricorda il campionario di un fornitore, mettendo in guardia sulla banalità del male.
Nelle regioni più privilegiate del mondo si scaccia il pensiero scomodo delle crisi incombenti. FUGA parla proprio delle strategie tramite cui ricerchiamo forme di distrazione e di svago, ignorando tutto ciò che resta fuori dal nostro campo visivo. Una grande fotografia di Massimo Vitali mostra una moltitudine di persone presso una spiaggia bianca, in un rituale di evasione collettiva. Per alcuni basta essere trascinati dalla corrente di un fiume artificiale in un parco divertimenti in Florida per ottenere l’illusione di essere immersi nella natura più selvaggia (Reiner Riedler); qualcun altro si spinge a intraprendere un viaggio verso la Groenlandia, in scenari un tempo incontaminati e che oggi sono ormai colonizzati dai turisti (Olaf Otto Becker). La simulazione di un’avventura ai confini della Terra, in verità condotta su navi da crociera lussuose come quelle ritratte da Jeffrey Milstein, è il contraltare di quanto devono affrontare i migranti sulle loro imbarcazioni di fortuna. Quando subentra la noia, si arriva anche a simulare la guerra per puro intrattenimento: tramite una rievocazione della Battaglia di Inghilterra (Simon Roberts), oppure girando un film ambientato nella Guerra Civile americana (An-My Lê fotografa la troupe durante le riprese, rivelando l’artificio).
La mostra termina con una finestra aperta sul futuro, E POI…, che rimane in bilico tra l’ottimismo e l’apprensione. Le architetture futuristiche del Sudest asiatico (Andreas Gefeller e Olaf Otto Becker), il reattore a fusione nucleare di Greifswald (Christian Lünig), le innovazioni nel campo della robotica protesica (Max Aguilera-Hellweg) sono i risultati di un’impresa collettiva. Ma, come messo in evidenza dalla rassegna di Robert Zhao Renhui, la stessa civiltà planetaria interviene geneticamente sulla flora e sulla fauna per scopi, spesso, esclusivamente ornamentali; oppure congela i suoi defunti, nell’illusione di potere un giorno sconfiggere la morte (Murray Ballard). Due immagini possono essere elette a rappresentare lo slancio verso il futuro, con tutte le sue contraddizioni: da una parte, la foto di Simon Norfolk che mostra il supercomputer Mare Nostrum all’interno di una chiesa di Barcellona, utilizzato per infinite applicazioni in ambito scientifico (ma anche per modellare la forma delle ali dei jet da combattimento); dall’altra, una visione immaginifica del FAST, il più grande radiotelescopio astronomico della Terra, situato in un’area remota della Cina, una forma concava nel paesaggio montuoso che nella foto di Michael Najjar sembra in attesa di raccogliere, come un bacino idrico, una pioggia di segnali di vita extraterrestre dallo spazio.