Cinzia saaaid! Inevitabile: quando penso a Cinzia Ruggeri, con la spensieratezza di chi è nato nel cuore degli anni Novanta e si guarda all’indietro, mi rimbombano nella testa i versi psichedelici dei Matia Bazar. E’ inevitabile, mi ripeto: anche ora, che sono in procinto di partire, incerta con le dita sul trackpad. Non possono toccare e scopro la mia visione squisitamente robotizzata, i miei movimenti indicizzati in una costellazione di cerchi luminosi; esploro, per la precisione, mentre scrivo comodamente seduta. Reggo tra le dita Casa Masaccio, improvvisamente miniaturizzatasi in un diorama che galleggia nel buio e che mi ricorda una casa di bambola, gremita di presenze ludico-acquatico-erotiche. La prendo e la infilo in un taschino con l’interno in velluto e lustrini: Elettrochoc, siamo sulla soglia.
Il preambolo, non richiesto, dovrebbe essere funzionale ad una prima ammissione: chi scrive ha visitato l’esposizione virtualmente. Vi ha fatto più volte ritorno, assumendo la forma inquietante di una creatura tutta occhi — un lustrino panottico — oppure di un corpo pixelato: opterei per l’ultima opzione, purché i pixel siano divoranti. L’esperienza risulta a tratti surreale e la speranza di precipitare aldilà dallo schermo, magari forandolo con la punta delle dita, non si estingue neppure a giorni di distanza.
La personale CINZIA RUGGERI… per non restare immobili, a cura di Rita Selvaggio presso Casa Masaccio, possiede una qualità materiale inaggirabile. Il percorso espositivo si configura in una cartografia domestica, evidentemente affettiva, che procede per stanze dislocate sui tre piani dello spazio espositivo. Potrei sentirmi più sola, se non ci fossero le poetiche didascalie di Rita Selvaggio a ritmare la mia incursione. L’universo della Ruggeri invita ad un corpo a corpo con le opere, o quanto meno, impone al visitatore di mettere da parte difese più che legittime, per farsi oggetto alla mercé di altri. Per farsi estensione e per non restare immobili, appunto. L’impressione che ho avvertito, presto tramutatasi in certezza, è che quel luogo recasse ovunque segno di una sospensione delle categorie rigorosamente praticata. Cerco di meglio esplicitare, di per sé categorie è un termine analitico, ma generico. L’inanimato, in Ruggeri, è evidentemente vivo o prossimo all’animazione: discorrere di interno e di esterno o di ornamento e architettura sarebbe fuorviante. In barba agli anatemi di Loos il delitto è voluttuosamente postmoderno e la superficie “sgocciola” abiti dal soffitto e dalle imposte, rigurgita corpi soft dagli angoli, si protende in mani giacenti o rampicanti, si coagula in oggetti che prefigurano rendez-vous deliziosi. In altri termini, il corpo di Casa Masaccio parrebbe letteralmente risucchiato dalle eccentriche creazioni di Ruggeri. «Abitami — ci sussurrano — indossami»: tutto è abito e tutto è abitabile, siamo nei territori di ciò che Giuliana Bruno definirebbe «architexture» (2016: 38). Per certi versi, essere riparata dallo schermo mi ha salvato dalla tentazione, a cui indubbiamente avrei ceduto, di abbeverarmi dal languido Bicchiere vis-à-vis (2005) o di adagiarmi supina sulla solleticante Lingua di Piume (2019). In Ruggeri si respira il rigore intellettuale del design radicale, il citazionismo postmordernista, il piacere di scoprire la commistione tra elementi organici, inorganici, tecnologici. Ma è la passione per il dettaglio, tuttavia, a propagarsi da ogni anfratto. Una forma di seduzione, sovente dissimulata nell’involucro di un guanto o nelle geometrie di un pizzo, che acquisisce una qualità narrativa senza dover passare per il filtro trito e ritrito del linguaggio.
Sono i materiali e le geniali soluzioni progettuali ad attivare un cortocircuito dialogico, che ci coinvolge in quanto corpi palpanti e potenzialmente indossanti. Come in Per un vestire organico, filmato girato con Marco Poma nel dicembre milanese del 1983, Ruggeri ci invita a divenire polpi coperti di ventose, che schioccano contro il mondo e vibrano abitandolo: rimane pur sempre una questione di un abitare, di un vivere a partire dalla viscere, con i neuroni disseminati su ogni tentacolo.
Così, varcando la soglia di Casa Masaccio, la poltrona Vanity Gatty (1985) fissa con occhi felini dardeggianti nell’oscurità violacea di un sottoscala: presenza graffiante. Salendo entriamo nel Living, che offre una dichiarazione d’intenti: Fili (2019), memoria della mano di Dafne del Cignani, sprigiona filamenti d’erba, antenne vegetali fautrici di una trasformazione meno contundente dei Finger Gloves di Rebecca Horn (1972). L’Abito primavera (1980) s’incornicia nipponico in Guardando all’ombra (1980), voyeuristico specchio di ascendenza intrauterina. Si prosegue in diretta dalle grotte medicee, dove spugne e madreperla, sirene degli abissi, si avvinghiano al cuscino e allo schienale di Sedia da doccia (2018), invadono le Scarpette con spugne (1980) e persino il Grembiule con spugne (1980). L’alta marea ci coglierà forse impreparati, benché in un déshabillé fatalmente subacqueo. Nella Sala da pranzo veniamo sedotti dal mitico Abito tovaglia (1984) e da Sterno di Pollo, posata carapace adatta per qualsivoglia merenda. Giunti poi nella Camera del Sonno ci attende Rocco (1996), fuggiasco in abiti da sera dal regno della Regina di Cuori di Caroll, con il cuore pugnalato e l’occhio onnisciente di Kubrick. Giulio Paolini rivive capovolto, sulla destra, in Abito Piero della Francesca (1980): senonché qui non è più il giovane modello di Lorenzo Lotto a restituire lo sguardo, ma un cherubino ricciuto del Mastro di Borgo Sansepolcro, impreziosito da un diadema e un medaglione di pietre colorate. Gli anni Ottanta esplodono gaudenti e gli occhi turchesi di costui pietrificano. Mano Luce (2001) investe con un fascio di raggi un paio di Tonsille (2002) fumanti: Colombra (1990) è lascivamente svenuta, un pollo di gomma fischiettante è nel pieno di una seduta di Ipnosi (2013), mentre ci riflettiamo attoniti in Spizzo (1988), florilegio delicatissimo dal quale fan capolino mani inguantate — nonché Guanto con Ossi (1980). Il nostro folle volo non poteva che terminare in Soffitta, al cospetto di Jean Renoir e nel cuore di un incidente alla Cronenberg, in cui monumentali aerei-maglioni — Le Bourget? (2019) misurano lo spazio e congiungono la terra al cielo. Vaghiamo tra le macerie di uno schianto d’amore, di cui potremmo sentirci vittime: gli occhiali di aviatore di Pensiero Fisso (2019) ci scrutano dal fondo.
Anche da virtuale, il volo è folle, carezzevole, eccentrico e squisitamente colto. Unica regola: essere disposti a sentirsi le ventose addosso. Il che significa, essere disposti ad unirsi a tali oggetti per avviare un training sensoriale alla Ruggeri. Esco, sfiorando con le mie dita-cursore l’iconico Abito a scale (1980), che mi ricorda la Murella Roja di Bofill, qui candido e pronto per un rito da vestale al fuoco dell’Architettura.
Come diceva Arbasino, «l’Amore è tornare con te nello stesso museo»: e dunque, non resta che prendersi del tempo per una promenade aristocratica, virtualissima, al cospetto di Cinzia!