Costellazioni. Immergersi in un lembo di cielo, in sé aperto eppure conchiuso, fatto di respiri e moti di rivoluzione. Avvertire il propagarsi di soffi siderali, ibridi, multirisonanti, che eccitano un’oscurità satura di gesti luminosi— nel teatro Noh il tragitto del braccio, il sollevarsi del kimono, lo schiudersi di un ventaglio. Sentendosi parte di un organismo avvolgente e pneumatico, la prima consapevolezza che potrebbe farsi strada nel fruitore astrologico è l’impossibilità di separare nettamente — come se le distinzioni categoriche fossero ancora possibili — l’opera d’arte dal suo contenitore mediale e fisico. La personale Cerith Wyn Evans…. “the illuminating gas”, a cura di Roberta Tenconi e Vicente Todolí presso Pirelli HangarBicocca, può essere definita un medium nei termini di milieu e di persistenza atmosferica. Tra gli assunti per una nuova estetica (aisthesis), da intendersi come percettologia, Gernot Böhme segnala la duplice temporalità che regola l’atto percettivo: il soggetto percipiente infatti, prima di cogliere l’oggetto percettivo o addirittura l’azione da questi generata, ne avverte l’atmosfera, conferendo ad essa caratteri persino emozionali (minacciosa, lugubre o rasserenante tra gli altri). Per certi versi, la produzione e la ricezione dei lavori di Wyn Evans sembra assecondare tale approccio sensoriale, che dal generale giunge al particolare, all’elemento scatenante.
Così, sfiorati dai bagliori di monumentali composizioni al neon, quali Forms in Space… by Light (in Time) del 2017 o Neon Forms (after Noh I) della omonima serie Neon Forms (after Noh), 2015-2019, si ha l’impressione di subentrare in uno spazio atmosferico privo di confini. Tale “deriva” pare dipendere non tanto dalle emozioni che l’ambiente può suscitare — del resto infinite, intraducibili ed estremamente soggettive — quanto dall’effettivo sentirsi-presenti in un’estensione definitivamente altra rispetto alla realtà. Le distanze vengono annullate, i colori ridotti alla carezza tra skotos (oscurità) e diaphanes (il trasparente). L’interazione tra le diverse installazioni diviene cruciale. Solo in un secondo momento la natura costruita dalle architetture luminose — composte da singole unità eterogenee per forma e dimensione, puntualmente rette da fili — esplode in tutte la sua carica formale, contenutistica e sinergica.
Ciò che più colpisce della produzione di Cerith Wyn Evans risulta l’impiego figurativo e anti-modernista del neon. Un impiego che pare eccedere la consuetudine artistica del mezzo, se si pensa alla sua immissione in composizioni di estremo rigore (come accade in Dan Flavin), oppure alla sua declinazione in lettere e statement — come per esempio in Joseph Kosuth.
Meno comune appare invece l’adiacenza semantica di neon e linea disegnata, tratto curvo o retto, segmento che può avvilupparsi astrattamente su se stesso oppure circoscrivere sagome più complesse, come nel caso della formula dell’LSD che compare in Forms in Space… by Light (in Time). La natura fremente e ambientale di tali viluppi non può non portare alla mente gli Ambienti spaziali di Lucio Fontana, protagonisti peraltro nel 2018 di una personale nei medesimi spazi Pirelli. Gli universi immaginati da Wyn Evans sono ludici, vitali, dirompenti, intimamente dinamici. Dai diagrammi derivati dal teatro Noh giapponese alle inflessioni duchampiane, il loro significante acuisce il valore del significato — il tratto. D’altro canto, le facoltà visive non ne esauriscono la comprensione, richiedendo piuttosto un’esperienza multisensoriale. In Composition for 37 flutes (2018) l’elemento uditivo diviene fondamentale, trattandosi di un congegno diafano che inala aria dallo spazio circostante per espirarla attraverso cannule di vetro, generando un soffio leggerissimo tra l’umano e il macchinico. Ancora, S=U=T=R=A (2017) e Mantra (2017), due lampadari fatti realizzare appositamente dall’artista in vetro soffiato di Murano, trasmettono segnali luminosi assecondando in modo dialogico il ritmo musicali composto da Wyn Evans.
Da ultimo, il riferimento a Marcel Duchamp non può esaurirsi nella citazione letterale che titola l’esposizione, “….the illuminating gas”, che riecheggia appunto il diorama duchampiano Étant donnés: 1. La chute d’eau, 2. Le gaz d’éclairage (1946-1966). Piuttosto, anch’esso dovrà essere inteso nei termini di un’allusione diffusa e inafferrabile. Rimanendo nell’alveo di una genealogia iconografica i Testimoni oculisti (figure strumentali impiegate nell’ambito dell’ottica), motivo de La mariée mise à nu par ses célibataires, même, compaiono luminosi e ingranditi in Oculist Witnesses (2017). Inoltre, sia l’orchestrazione di una molteplicità di elementi familiari, sia l’impiego di filamenti — quegli stessi elementi già rilevati come ricorrenti e strutturali in ogni architettura lucente di Wyn Evans — possono essere riscontrati tanto nell’ultimo dipinto di Duchamp, Tu m’ del 1918, quanto nell’intrico accidentale di incrinature che attraversa il palinsesto del Grande Vetro. L’elemento energetico sotteso alla locuzione The illuminating Gas procede di pari passo a quello della visione: immersi tra le costellazioni, sostiamo al di là del portone ligneo di Étant donnés, prossimi alla lampada Auer, percependone l’energia. A partire da Neuf Moules Mâlic (1914-15), i fili conduttori – setacci in Duchamp – trasportano energia pura, non casualmente vitale e terribilmente erotica. Un’energia d’intensità prossima a quella che scorre ad intermittenza nelle leggerissime colonne sospese dell’opera site-specific per HangarBicocca StarStarStar/Steer (totransversephoton), con cui veniamo inghiottiti in un’inattesa Via Lattea.
Cerith Wyn Evans
“….the Illuminating Gas”
A cura di Roberta Tenconi e Vicente Todolí
Pirelli HangarBicocca
31 Ottobre 2019 – 23 Febbraio 2020