Scansioniamo, anzi sezioniamo, il corpo dell’esposizione. La mostra Cere anatomiche: La Specola di Firenze | David Cronenberg si dispiega negli spazi del Podium di Fondazione Prada, occupandone entrambi i piani con una diade di allestimenti concertata dall’olandese Random Studio, già artefice del display acquatico della trascorsa collettiva Role Play (Osservatorio Fondazione Prada).
La pianta libera del piano terra viene colonizzata da un catafalco opaco, una cavea robusta che cela le proprie inquiline da occhi indiscreti. E a ragione, a ben vedere! Quali singolari mirabilia trattengono le coulisse e i gradoni-seduta che costituiscono il versante interno – l’intestino, si direbbe – dell’apparato. Una coppia di schermi cinematografici, idealmente disposti fronte e retro, proiettano le gesta di un convivio di Veneri ceroplastiche, rigorosamente giacenti, migrate dal Museo della Specola parte del Museo di Storia Naturale e del Sistema Museale di Ateneo dell’Università di Firenze. Il cortometraggio trasmesso, Four Unloved Women, Adrift on a Purposeless Sea, Experience the Ecstasy of Dissection (3’’ 47’, 2023), viene imbastito da un solare David Cronenberg. Sin dalla sua invenzione, il cinema e ancor più le teorizzazioni elaborate su tale medium, hanno istituito con acume la consonanza tra le figure del chirurgo – dirimpettaio del ceroplasta –, l’operatore (il riferimento è a Walter Benjamin) e l’imbalsamatore (secondo il complesso della mummia di André Bazin). Recidere e suturare la striscia di celluloide, così come penetrare con le dita e con gli occhi i misteri del corpo umano. Un gemellaggio non antichissimo, ma certamente consolidato, quello tra cinema e corpo. Una fedeltà che persiste con eguale agonismo tra Cronenberg, l’immagine in movimento e il corpo, sia esso organico o inorganico.
Nella linearità della scelta registica, colpisce forse il tono dell’impresa che si direbbe “californiano”. Del resto, si sa, l’ora dei demoni scocca col meriggio, meglio se rovente. Ecco, allora, le donne di cera, sigillate o divelte a esibire gli organi, galleggiare sulla distesa d’acqua di limpide piscine. Memorie di cocktail e apparati digerenti in ora d’aria. Ma il cambio di location, viene da chiedersi, realizza uno scarto nello statuto di tali straordinari manufatti?
Congegni moderni licenziati da sapienti artiste e artisti – si pensi ai casi della grande Anna Morandi Manzolini, di Gaetano Zumbo e di Clemente Susini – le scuole di ceroplastica assolvevano con mezzi artistici a uno scopo didattico. Esito di una meticolosa lavorazione, lenta e composita nei processi, lo studio empirico dell’anatomia del corpo umano passava dalla riproduzione mimetica dei suoi organi, talvolta isolati allo stato di frammento, talaltra precisamente allocati nei meandri del corpo. Le cosiddette Veneri rientrano in questa seconda categoria.
Una denominazione, quella per l’appunto di “venere”, certamente non neutrale, benché eloquente. Le pose lascive o sottilmente estatiche in cui venivano plasmate le suddette effigi, eternate con labbra schiuse, occhi pronti a capovolgersi o spalancati in qualche forma di rapimento, mitigavano la sopportazione, tendenzialmente concertata da uno sguardo maschile, di quel tripudio di sacche, intestini e ghiandole in fuga dall’epidermide.
Cronenberg, nel solco di Godard, cartografa in un mosaico di close-up ogni regione di quei corpi assurti a seducenti congegni. Il volto, la mano, il piede, il ventre inviolato, il ventre svelato: lo sguardo corale – e lo si ricorderà, ancora una volta maschile – della lezione di anatomia del Dottor Nicolaes Tulp di Rembrandt si parcellizza in una ritmica di carezze e accomodamenti oculari. Rockstar o divinità assoggettate a uno scrutinio clinico paiono ora del tutto disinteressate alle pupille di chicchessia, siano esse mediche, fameliche o paralizzate dal terrore.
Tale dialettica tra interi e unità, tra totalità e frammento, codificata nella logica del montaggio, prosegue nel piano superiore del Podium. La promenade ascensionale nel moto, si realizza in una discesa ctonia: dalla luminosità bruciante della siesta, alla penombra tenace del limbo. Molteplici risultano le fonti che si affollano nella fantasia accedendo alla seconda sezione dell’esposizione. Il visitatore si trova catapultato tra i decumani di un display modulare, minimalista nel lessico, di teche in bois de rose contenenti quattro esemplari di veneri anatomiche e altrettanti frammenti in cera o dettagliati disegni. L’oscurità controllata, la sinfonia meccanica degli allarmi, i parallelepipedi opachi e insieme luminescenti che costruiscono l’allestimento infondono allo spazio un sentore sacrale e certamente sgomento, sia esso di catacomba, camposanto o finanche di obitorio.
Il corpo in scultura è divenuto corpo della scultura: nel loro divenire un tutt’uno con le teche espositive e con il diagramma di esemplari rigorosamente esibiti, il funzionamento di tali manufatti subisce uno scarto sottile e non trascurabile. Tali congegni teorici che simulavano nella forma la scultura ora agiscono come delle sculture: esse sono, scultura. Frutto della dislocazione geografica e museale di tali manufatti, si tratta di un destino di cui, come l’immersione nelle profondità del corpo, occorre interrogare criticamente il funzionamento e le dinamiche con spirito vivace e non meno analitico.