ugly woman scratching her head è il titolo della prima personale di Catherine Biocca alla Galleria Eugenia Delfini di Roma. Biocca, che ha trascorso quindici anni all’estero e che tra il 2014 e il 2015 è stata artista in residenza presso la prestigiosa Rijksakademie Van Beeldende Kunsten di Amsterdam, presenta a Roma, sua città natale, un nuovo nucleo di lavori, perfettamente in linea con un’estetica personale ed in continuità con alcuni aspetti rintracciabili nei suoi progetti più recenti. Linguaggio, comunicazione, medialità della comunicazione rappresentano dei tools che in questa mostra sono capaci di attivare uno spostamento, un vero e proprio hackeraggio della percezione. Cosa sta accadendo intorno a noi? Come possiamo relazionarci all’interno di questo campo gravitazionale in cui si susseguono parole, immagini, oggetti?
Nel 2024 Biocca ha vinto l’ultima edizione dell’ALA Art Prize, Notes on takingcare, con Cloudy Care (2024): riflettendo sulle sfumature semantiche associabili al concetto di cura, l’artista ha trasposto il tema all’interno della sfera lavorativa, favorendo una dinamica condivisa con i dipendenti di ALA e insistendo sull’idea di self-care. In ugly woman scratching her head – titolo preso in prestito da un video divenuto virale sul web, senza un preciso motivo, dal momento che restituisce l’immagine di una donna assorta nei propri pensieri – Biocca ha trasformato lo spazio di via Giulia in un perturbante tanto quanto surreale cameo in cui il divide linguisticotra un Cane e una Donna si riflette sulle loro – e le nostre – dinamiche relazionali e di comunicazione, mentre, al centro della galleria, un’installazione sapientemente orchestrata accompagna la visione come fosse il prop, l’arredo scenico, di uno spettacolo appena consumato o di lì a venire.
Spaziando dal video all’installazione, passando per il disegno e la pittura, intesi in senso non tradizionale né convenzionale, Biocca utilizza materiali tra i più disparati, senza mai rinunciare a una specie di matrice tattile, seducente e straniante. All’interno della galleria, tre schermi (Disposable Wipes Story) presentano, con una perfetta coincidenza di tempi e pause, ad un ritmo incalzante, i tre personaggi protagonisti della storia: una donna con il volto coperto da una maschera di gomma siliconica – aspetto questo in grado di creare uno spostamento netto della percezione: stiamo contemplando una marionetta? oppure, il volto coperto di qualcuno che non intende rivelare la propria identità? o, ancora, il sembiante vero e proprio della Donna?; su un altro monitor, un bicchiere animato – accompagnato dal lumicino di una piccola candela accesa che fa pensare a un’attitudine meditativa propria del personaggio – dà l’incipit alla conversazione, alla stregua di un narratore manzoniano; infine, un Cane, esteriormente più simile a un puppet che a un pet, eppur dotato di uno sguardo lucido, e cinico, sul mondo e le cose: “la perfezione conta molto meno della volontà di tornare, ancora e ancora, non solo nel posto in cui cerco di farti capire me, ma nel posto in cui mi metto da parte per capire te. Ho bisogno di un’ancora, e tu sei troppo persa nel tuo caos per vederlo”. Cane e Donna, contesi in una conversazione che incalza come in una sfida a ping pong, sono manovrati, dall’alto, da due mani onniscienti, che alternativamente chiudono e aprono loro la bocca.
Al centro, una grande installazione, fatta di profilati in acciaio, maschere BDSM, piccole sculture policrome e oggetti vari, restituisce la presenza, straniante, dei simulacri visti contemporaneamente sugli schermi.
Per Saverio Verini, che ha scritto il testo critico di accompagnamento alla mostra, “quello che circonda i nostri protagonisti somiglia al paesaggio in cui ci troviamo immersi e al quale è difficile sfuggire: è il paesaggio a cui accediamo varcando quotidianamente la soglia dell’iperconnessione, dello scrolling compulsivo di social network e pagine internet, della caterva di data (informazioni, notizie, immagini…) che ci inonda, dell’eccesso di attivismo e, sopra ogni cosa, della paura di perdersi anche la più insignificante briciola di questo spettacolo, di essere tagliati fuori da tutto ciò, di mancare chissà quale imperdibile appuntamento”.
La FOMO – letteralmente fear of missing out, termine sdoganato dalle giovani generazioni per descrivere un fenomeno sociale correlato alla digitalizzazione della vita quotidiana – viene descritta dagli psichiatri come caratterizzata da un utilizzo compensatorio delle nuove tecnologie. Compensatorio rispetto a cosa, viene da chiedersi? Certamente, in relazione all’impossibilità di scelta rispetto a come impiegare il tempo libero, derivata proprio da una sollecitazione ipertrofica in grado di ingenerare un alto livello di frustrazione.
Nello script che Biocca ha composto per Disposable Wipes Story i personaggi scambiano battute veloci, ad un ritmo quasi nevrotico, che consuma in fretta la loro comunicazione verbale. I loro simulacra – come già detto, ottenuti assemblando componenti tech, oggetti quotidiani e decontestualizzati, insieme a materiali sintetici plasmati in maniera scultorea – sono in grado di conferire una plasticità inedita, bizzarra e depistante riportandoci alla realtà dello spazio che attraversiamo – senza farci capire davvero se si tratti di una realtà effettiva, di un incubo, di un’invasione di campo da parte di queste figure perturbanti, metà umane, metà animali, metà macchine.
È in questo dialogo tra immagine video e installazione che risiede la potenza di uno scambio dentro/fuori: dentro lo schermo, al di fuori di esso, e con uno spostamento pensato per produrre in chi guarda un effetto sconcertante, forse legato alla nostra effettiva abitudine di osservare il mondo da uno schermo, rifiutando, talvolta, la complessità dei livelli implicati nella comunicazione. Non c’è soltanto l’incomunicabilità nel tacito e dimesso accordo raggiunto tra Cane e Donna – “speriamo di trovare la nostra strada insieme attraverso questo spettacolo di merda”, dirà il Cane – ma c’è anche, e forse questa è una caratteristica ricorrente nel lavoro di Biocca, un umorismo deadpan che è completamente in linea con la nostra società, con i linguaggi che stiamo vedendo nascere e svilupparsi, con un certo atteggiamento verso il mondo che è proprio di chi osserva con sarcastico distacco e con capacità di sintesi critica. In definitiva, tutta la mostra chiama in causa una molteplicità di aspetti che, in fondo, caratterizzano il nostro quotidiano, sospeso tra virtuale e mondano, alto e basso, familiare e perturbante.
Installation view – ugly woman scratching her head di Catherine Biocca, Galleria Eugenia Delfini, Roma. Foto di Sebastiano Luciano. Courtesy Galleria Eugenia Delfini