Il potere immaginifico dello storytelling, l’utopia femminista, la denuncia del cronico disinteresse occidentale nei confronti delle storie drammatiche dei rifugiati: questi i temi protagonisti di Candice Breitz: Never Ending Stories, la nuova mostra di Fondazione Modena Arti Visive (FMAV) curata da Daniele De Luigi. Fino al prossimo 18 settembre la Palazzina dei Giardini ospita la più grande monografica dedicata da istituzioni italiane a Candice Breitz (Johannesburg, 1972), artista di fama internazionale che nel 2017 ha rappresentato il Sudafrica alla 57esima Biennale di Venezia. Sono esposte tre grandi installazioni immersive (due delle quali mai allestite prima in Italia) che richiedono un certo investimento di tempo da parte del visitatore, denunciando per contrasto i ritmi sempre più accelerati imposti dalla società dei mass media.
Le pareti dei due ambienti dell’ala sinistra dell’edificio sono interamente occupate da Digest (2020), una sequenza di 1001 videocassette sigillate entro custodie totalmente ricoperte da motivi astratti in acrilico nero, opera di un team di giovani pittori che ha collaborato con l’artista per due anni. I tapes sono disposti a blocchi di 25 su mensole di legno, ad eccezione di uno di essi che è posto al centro della prima stanza. Su ognuno campeggia in bianco un verbo in lingua inglese, che replica nel font e nel posizionamento la porzione del titolo di un film diffuso nell’era dell’home video (ad esempio “kill” è tratto da Kill Bill, mentre “split” proviene dall’omonimo film con James McAvoy), ma non corrispondente al contenuto effettivo della videocassetta, che rimane sconosciuto e inaccessibile, in virtù del fatto che è proprio l’intervento pittorico a sigillarne per sempre l’accesso. Solo disfacendo irrimediabilmente l’involucro sarebbe possibile (e forse lo sarà in un futuro remoto) accedere a queste capsule temporali, custodi di un ricco patrimonio di storie il cui numero allude a Le mille e una notte. Il fil rouge della raccolta di racconti è noto: il sultano Shahrayar decide, in risposta al tradimento subito dalla prima moglie, di sposare una vergine ogni giorno per poi ucciderla ad ogni alba successiva alla prima notte di nozze, impedendo a ciascuna di esse di cedere alla tentazione dell’adulterio; Shahrazād si offre come sua sposa con l’intenzione di interrompere l’eccidio tramite un espediente, cioè il raccontare al sovrano storie troppo lunghe per essere completate nell’arco di una notte, spingendolo così a rinviare ogni volta l’esecuzione alla notte successiva. In conferenza stampa l’artista ha definito Shahrazād un’“eroina proto-femminista”, che impiega il “potere della narrazione” come “mezzo di sopravvivenza e di resistenza alla violenza patriarcale”. Il dipinto al centro della prima sala, che riporta la parola “crown”, è una constatazione della perdurante incombenza di tale minaccia nella realtà sociale, ma allude anche ad un possibile ribaltamento di prospettiva, dato che “to crown someone” in inglese può anche significare “colpire alla testa”.
Le 1001 videocassette, che secondo Candice Breitz devono essere viste a tutti gli effetti come una “videoinstallazione multicanale” in cui il contenuto video è presente in potenza (per quanto celato allo sguardo), sono contenitori per innumerevoli narrazioni lasciate all’immaginazione dello spettatore, a partire dallo stimolo rappresentato dai verbi. Di questi l’artista ha proposto una tra tante disposizioni possibili, con lo scopo di aggregare termini che si riferiscano a sfere semantiche più o meno omogenee. Talvolta i raggruppamenti si contrappongono vicendevolmente e ad esempio parole di violenza politica (“invade”, “sentence”, “arrest”, “torture”) sono poste accanto alla voce della resistenza (“shelter”, “riot”, “rebel”, “boycott”): un contrasto archetipico che emergerà dai pattern astratti solo allo sguardo disposto a passare in rassegna i termini come se fossero un rebus da risolvere. Una possibile chiave di lettura, che l’artista si limita a suggerire, è l’associazione tra le superfici nere frastagliate di onde e chiazze a rilievo e l’oscurità delle notti di prigionia di Shahrazād, come se fossero “spazi di proiezione da cui la narrazione può affiorare”. Non è secondario il fatto che il lavoro sia stato concepito e prodotto durante gli anni della pandemia, suggerendo così ulteriori livelli di significato, a partire dal fatto che il pubblico può riconoscersi in prima persona nell’esperienza della reclusione e dell’isolamento patita dalla narratrice (“crown” in tal senso evoca anche lo spettro del coronavirus).
Nella sala centrale della Palazzina il visitatore trova ad aspettarlo una grande tenda circolare, che cela al suo interno l’opera Labour (2017-in corso), composta da 6 videoinstallazioni a canale singolo, ognuna a sua volta protetta da un ulteriore tendaggio che deve essere scostato per poter visionare i brevi filmati. Questi mostrano senza filtri le immagini di una serie di nascite, ma lo svolgimento degli eventi è invertito nel suo flusso temporale; il neonato, invece di venire alla luce dopo il travaglio e di essere accolto dalle braccia della madre, le viene piuttosto sottratto per ritornare all’oscurità del grembo. All’esterno del tendaggio, un altisonante “Decreto Matriciale” evoca, secondo la definizione che ne dà la stessa artista, una “utopian feminist fiction”: si immagina che nel contesto di un governo matriarcale futuristico le donne abbiano il potere non solo di far nascere altri individui, ma anche di invertire il corso della vita umana annullando l’esistenza dei “membri della Progenie irrimediabilmente disfunzionali” e degli “Estremisti Binari”; tra questi anche i leader autoritari che attuano un “sabotaggio deliberato della Giustizia Riproduttiva”. I nomi di alcuni di loro sono inseriti cripticamente nei filmati, in quanto anch’essi rovesciati: Mik, Nasbro, Nitup, Oranoslob, Pmurt, Nagodre. Il gravoso processo del “Disfacimento del Travaglio” messo in atto da queste donne, che si sono offerte volontariamente di condividere con lo sguardo della telecamera un’esperienza così intima e che hanno compartecipato alla scelta del dittatore a cui fare riferimento con il proprio contributo, garantisce di preservare il benessere della “nidiata” (l’umanità nel suo complesso) e l’ordine sociale. Il potere insito nel corpo della donna è reso un vettore di resistenza politica. Proprio per rispettare la scelta coraggiosa delle donne coinvolte non esistono immagini pubbliche dei filmati che le riguardano.
Infine in due ambienti ricavati dall’ala destra della Palazzina dei Giardini trova posto la videoinstallazione a sette canali Love Story (2016), primo capitolo di una trilogia video ancora in via di completamento dedicata all’economia dell’attenzione, il quale prende la forma di un tributo alle storie di sei rifugiati, costretti per motivi diversi a fuggire dalle loro terre di origine: Sarah Ezzat Mardini, ragazza salvatasi dalla guerra in Siria; José Maria João, ex-bambino soldato proveniente dall’Angola; Mamy Maloba Langa, dalla Repubblica Democratica del Congo, vittima di uno stupro da parte degli avversari politici del marito; Shabeena Saveri, costretta a fuggire dall’India perché minacciata di ripercussioni per il suo attivismo transgender; Luis Nava Molero, dissidente politico venezuelano che si era opposto al regime di Chavez; Farah Abdi Mohamed, il cui dichiarato ateismo lo aveva messo in pericolo nella società somala, a forte impronta musulmana. Ad ognuno di loro è dedicata una lunga video-intervista (la durata media è di circa tre ore ciascuna) che impiega tutto il tempo necessario a dipanare le vicende drammatiche che costituiscono le loro storie e che rappresentano ormai una macchia indelebile nella loro esistenza. I sei filmati sono però preceduti nel percorso di visita da un altro video, tramesso da uno schermo più grande, in un ambiente che sembra alludere ad una sala cinematografica. In questo caso, ripresi davanti allo stesso green screen trovano posto i volti celeberrimi di Alec Baldwin e Julianne Moore, i quali impersonano di volta in volta i sei rifugiati seguendo una sceneggiatura costituita da frasi selezionate a partire dai loro racconti. Ne risulta un prodotto più appealing per il pubblico, nei tempi (è lungo solo 73 minuti, a monte delle oltre 20 ore totali di durata delle interviste vere e proprie) e nelle modalità di esposizione, dato che è privato degli inevitabili tempi morti e delle incertezze di chi richiama alla mente ricordi dolorosi. Baldwin e Moore indossano di volta in volta degli accessori appartenenti agli intervistati, in modo che possa essere chiaro per il visitatore di chi è la voce che emerge in ogni sequenza attraverso la maschera dell’attore o dell’attrice. Candice Breitz pone lo spettatore di fronte ad una scelta: assumersi l’impegno oneroso di dedicare molto tempo all’ascolto delle storie originali, oppure ripiegare sulla versione rifinita e hollywoodiana, più intrattenente ma irrimediabilmente imprecisa e parziale. Love Story è un monito che evidenzia quanto la società sia ossessionata e appagata dall’entertainment, quanto sia disposta a interessarsi alle vite patinate delle celebrità distogliendo allo stesso tempo lo sguardo dalle storie drammatiche di altri esseri umani.
Per l’artista Labour e Love Story sono tra loro connessi: le nazioni europee affrontano una grave crisi della natalità e del conseguente aumento dell’età media dei propri abitanti, eppure respingono coloro che potrebbero risolvere il problema del lavoro. Dunque, le “politiche del lavoro e della migrazione sono sempre connesse alle politiche della riproduzione”; non è un caso se “to labour” può essere tradotto sia come “lavorare sodo” che come “essere in travaglio” e che proprio con questo significato compare in Digest nella griglia di verbi dedicata alla maternità. Nel mondo di Candice Breitz la strada per il cambiamento passa dal potere insito nello storytelling e nelle potenzialità semantiche della lingua.