Nell’assolata piazza di Villa Brivio di Nova Milanese, sabato 12 giugno si è tenuta la premiazione della 62ª edizione del Premio Internazionale Bugatti – Segantini. Ad essere premiato è stato l’artista romano Claudio Palmieri.
Per tale occasione è stata inaugurata nelle suggestive sale di Villa Brivio una sua piccola personale, una semi antologica curata dal noto critico d’arte Flaminio Gualdoni, che ha selezionato per l’occasione: dipinti, sculture e fotografie dell’artista.
Claudio Palmieri classe 1955 esordisce a metà degli anni Ottanta alla galleria L’Attico di Roma nella mostra Tre pittori inediti. Questa occasione segna in suo inserimento definitivo all’interno del gruppo Nuova Scuola Romana e Scuola di Via del Paradiso, che ruotava attorno alla galleria diretta da Fabio Sargentini.
Simona Squadrito: È il 1985, quando lei appena trentenne debutta, insieme a Guillermo Conte e Ivan Fodar, alla mostra Tre pittori inediti, allestita presso la galleria L’Attico di Roma. Potrebbe raccontarmi qualcosa di quel periodo? Come ha conosciuto Fabio Sargentini e come si è sviluppata la vostra collaborazione?
Claudio Palmieri: Era un periodo di grande fervore. Roma era il centro delle nuove proposte che venivano dal mondo dell’arte. Tanti artisti giovani si affacciavano alla ribalta; alcuni galleristi creavano la loro “squadra” di giovani talenti. Dopo il successo internazionale della Transavanguardia il ritorno alla pittura era evidente. Una pittura nuova, libera, senza preconcetti stilistici. Fabio Sargentini, dopo un periodo di pausa in cui si era dedicato al teatro sperimentale, aveva riaperto L’Attico in via del Paradiso.Fu Pizzi Cannella, mio compagno di corso all’Accademia, a presentarmi Sargentini. Era il 1983, avevo 28 anni, e di quella prima visita allo studio ricordo la sensazione di essere stato sotto esame, sotto una lente d’ingrandimento. Fabio scrisse nel testo di presentazione della mia prima personale: «Come faccio sempre nell’approccio con un nuovo artista, gettai un occhio alla persona e uno al lavoro ». Da allora la nostra collaborazione non si è più interrotta: sei mostre personali e quattordici collettive, oltre a diversi interventi artistici nel teatro e al restauro delle opere di Pascali e Leoncillo. Imparammo a conoscerci, lui ad accettare il mio eclettismo, il mio accentuato sperimentalismo che mi derivavano probabilmente dalla frequentazione continua con il mio maestro, il futurista Mino delle Site, ed io a capire il gallerista nonché animatore culturale, performer teatrale, poeta, scrittore, promotore di eventi ed altro. Cambiai studio, più vicino al centro condividendolo con l’amico Giancarlo Limoni per alcuni anni. La sfida di quel primo periodo era la pittura nuova e io che facevo già ricerca fotografica, scultorea e di musica jazz mi cimentai con passione in una pittura emozionale di grandi dimensioni, con ampi gesti a spatola, quasi una pittura del corpo.
Dopo la collettiva Tre pittori Inediti e la collettiva a Graz arrivò la prima personale all’Attico, e poi la personale a New York da Annina Nosey: un successo emozionante… tutte le opere vennero vendute.
Richard Gere, fine collezionista, comprò Campo di girasoli un’opera di quattro metri. Un’altra grande opera fu esposta al Aldrick Museum of Contemporary Art. All’epoca non mi resi pienamente conto di quanto interesse suscitasse il mio lavoro. Ecco cosa accadde in quel periodo!
S.S: Sempre nell’ ’85 insieme a Nunzio, Pizzi Cannella, Limoni, Ragalzi, Tirelli e Luzzi sotto la dicitura La nuova scuola romana espone alla Galerie Bleich-Rossi di Graz.
Con La nuova scuola romana generalmente si intende quel “gruppo-non gruppo” che sulla scia del ritorno alla pittura – come giustamente scrive Roberto Gramiccia nel primo volume dedicato a questo “movimento” – ha come obiettivo il superamento dell’arte concettuale e minimalista, riaffermando le ragioni di un’arte tradizionale e innovativa. Insieme all’Arte Povera e alla Transvanguardia, La nuova scuola romana, rappresenta la terza protagonista dell’arte contemporanea italiana di quel periodo. Vuole raccontarmi qualcosa in merito alla nascita di questo “gruppo” e della sua evoluzione?
C.P: Di quella mostra vorrei ricordare il grande successo e l’accoglienza che ci riservarono le autorità del Comune di Graz, invitandoci alla festa tradizionale in costume nel castello Eggeberg, una serata indimenticabile! Il “gruppo” si formò intorno a Fabio Sargentini in una Roma che era un vero crogiuolo di situazioni e di giovani artisti emergenti che si aggregavano in diversi movimenti. La scuola di San Lorenzo, L’astrazione povera di Filiberto Menna, Gli Anacronisti Di Maurizio Calvesi e Italo Mussa, l’Eventualimo, iTrattisti e i Clandestini, un panorama molto complesso e articolato. Credo di non sbagliare dicendo che La nuova scuola romana coincide con la Scuola di via del Paradiso, che fu così ribattezzata da Maurizio Calvesi quando nel testo critico della mostra di Graz fa riferimento ad assonanze pittoriche con Mafai e Scipione, protagonisti della prima Scuola Romana. Di me scriveva nel testo di presentazione: « […] con i suoi motivi di fiori che sembrano congiungere, in un’operazione filologicamente corretta, Soutine e Mafai, assapora l’immagine invischiata nella materia ma guizzante. La distruttiva matrice dell’espressionismo è capovolta di segno, verso una germinante effervescenza ». Dopo la risonanza della mostra di Graz a noi artisti si aprì la possibilità di farci conoscere anche a livello internazionale, alcuni di noi riuscirono ad esporre a New York, a Parigi ecc. Dopo questo primo periodo le nostre rispettive carriere cominciarono a delinearsi in maniera individuale e la logica del “gruppo” della “scuderia” si esaurì.
S.S: Questa intervista accade in occasione della sua mostra curata da Flaminio Gualdoni, allestita per celebrare il premio alla Carriera che le è stato conferito per la 62ª edizione del Premio Internazionale Bugatti Segantini. La mostra costituita da circa una ventina di opere vuole valorizzare il suo percorso di pittore, di scultore e di fotografo. Come si sviluppa il percorso e la gestazione di questa piccola ma significativa antologica?
C.P: É stato difficile scegliere le opere, tra le tante rappresentative, di circa 40 anni di lavoro. Si è cercato insieme a Flaminio Gualdoni, di dare una visione traversale della mia poliedrica ricerca sul tema della natura, attraverso la fotografia, la pittura e la scultura, cercando di dare un filo conduttore ed evidenziando il mio sperimentalismo sui materiali, sulle tecniche, per meglio comprenderne le soluzioni dell’immaginario naturale.Il percorso inizia con tre fotografie di architettura naturale basate sulla forza della simmetria e delle texture dei rami. Stampe in bianco e nero su supporto di alluminio. Poi ad accogliere il visitatore, verso il corridoio, c’è Squilibrio una scultura del ’92 in ferro e ceramica, dove quest’ultima colorata in modo informale si contrappone alla struttura contenitore del metallo nero. Nel corridoio, invece sono collocate cinque opere ispirate alla forza dinamica della natura vegetale con inserimenti di rami e foglie essiccate unite nell’impasto cromatico giallo fluorescente. Bagliori di luce su fondo nero, bagliori di una natura reinventata ma simbolo di una vitalità desiderata. In tre sale abbiamo creato un dialogo tra un quadro e una scultura: una relazione per affinità compositiva ma anche per alchimia emotiva. In un’altra sala invece, trovano posto due opere in cera e vegetali essiccati, due esempi compositivi di libertà modulare. Nella sala centrale vi è l’opera Architettura naturale, una sorta di geometria emozionale, un “quadro non quadro”, ma sagomato. É un’opera dove si fondono bene le mie due anime quella scultorea e quella pittorica. Architettura naturale è stat acquisita nella collezione civica del Premio alla carriera Bugatti Segantini 2021.
S.S: Il sintetico percorso espositivo della mostra appena citata, lascia fuori due elementi importati della sua ricerca: la musica e la performance. É nella seconda metà degli anni Novanta, infatti, che inizia a sperimentare l’incontro tra il suono e la sua scultura. In questo periodo insieme al jazzista Maurizio Giammarco si esibisce in Hardware: una performance che vede suonare insieme il sax e le sue quindici sculture. Da dove nasce l’esigenze di rendere le sue sculture sonore?
C.P: Fin da giovanissimo mi sono interessato allo studio della batteria suonando un po’ di jazz a livello amatoriale. Quando tolta la batteria per motivi di spazio, i miei strumenti percussivi sono diventate le sculture. Mi affascinavano le variazioni tonali dei vari materiali, l’acciaio, il ferro, l’alluminio il bronzo, l’alluminio fuso. Oltre all’alchimia delle forme metalliche ho creato dei quadri di alluminio fuso e una volta sospesi li ho usati come gong! Nella solitudine dello studio era un bel modo di esprimere la rabbia, lo stress e di esternare l’esigenza empatica di una condizione umana sofferente. Mi resi conto di quanta difficoltà si trovava nel proporre la scultura rispetto a un quadro. Arrivai alla consapevolezza che la scultura doveva uscire fuori, salire sul palco, fare sentire la propria voce, non come automa mosso da ingranaggi ma provocata e assistita da me. Decisi di contrapporre il nero delle lamiere metalliche al colore dorato dell’ottone e mi venne l’idea di unire anche la voce degli ottoni. Ecco l’incontro con il sassofonista Maurizio Giammarco che sposò subito l’idea e dopo due mesi di improvvisazioni nel mio studio eravamo pronti per inaugurare con due performance consecutive la prima Biblioteca multimediale di Roma “Bibli”(1995). Era la prima volta che mi esibivo in pubblico tra cui c’erano anche i colleghi jazzisti di Maurizio. Un’emozione unica! Il progetto artistico-scultoreo-sonoro era nato…
Un’azione spettacolo di pura improvvisazione che si esauriva dopo circa un’ora, senza pause: non si può interrompere la contaminazione visiva e sonora dei linguaggi, la tensione si avverte, l’adrenalina sale, il rumore metallico provoca vibrazioni ataviche, le sculture hanno la loro voce e diventano suono, le note del sax prendono forma in un intreccio unico. Come accade a me durante la performance, il corpo di chi ascolta viene investito senza difesa da un flusso emozionale che lo costringe a scavare nella memoria, in un percorso liberatorio. Non elencherò adesso tutte le performance nei musei, castelli, conservatorio ma mi preme sottolineare che ogni volta l’improvvisazione è diversa e unica e sarà così anche in futuro, è un work in progress.
S.S: Flaminio Gualdoni nel testo appena pubblicato nel catalogo della mostra in Villa Brivio, commentando la sua ricerca accenna ad una natura non pacificante, ad una suggestione in cui materia/colore entrano ad un punto di crisi e di rottura. Un grido impuro “ma gravido di un’urgenza di parola che è stimmate fatale della poesia”, citando le parole Fabrizio D’Amico. Cos’è questo grido dal suo punto di vista? E infine, in che rapporto sta la sua ricerca con la poesia?
C.P: Fabrizio D’Amico, nel testo di presentazione delle opere Koùroi esposte per la mostra Martiri e Santi all’Attico nel ’96, parlava di un grido impuro riferendosi a due icone corrose nella materia, scavate dal processo dell’acido che deforma i corpi. Una tecnica impura se paragonata a quella delle grandi tele precedenti, ma avevo bisogno di un sovratono che testimoniasse il malessere, il disagio mio e di tutti noi… mi riferisco alle continue immagini drammatiche che i media ci proponevano, dell’assedio di Sarajevo, della guerra in Bosnia. Un grido sulla natura umana, ma un grido anche sulla natura aggredita dall’uomo. Stimmate come parola urgente che nasce dal dolore. Nel bellissimo testo di Flaminio Gualdoni si evince che la mia natura non è contemplativa, non è assicurante; è invece artificiale più che naturale, dove il velato rimane sempre il desiderio di un bisogno vitale di armonia con la madre di tutte le cose: la Natura.
La mia ricerca non ha un rapporto diretto con la poesia letteraria. Se per poesia si intende l’arte della creazione attraverso accostamenti semantici e tecnici che fissano momenti emotivi inspiegabili con il normale linguaggio, allora sì. Le mie opere sono l’equilibrio di suggestioni, soluzioni, materie che attraverso il dualismo tra l’aspetto progettuale e quello organico riescono a convivere. Come nella poesia, le opere d’arte visuali possono farci arrivare nel nostro profondo giardino delle emozioni, tutte, anche quelle più oscure. Attraversare la linea di confine del non visibile e captare l’immaginario personale lontano dall’oggettività quotidiana e riuscire con una metamorfosi alchemica a creare un unicum tra ciò che è rappresentato e ciò che é celato.