Ha inaugurato a Roma negli spazi di Via Crispi il nuovo progetto presentato dalla Fondazione Nicola Del Roscio con la direzione artistica di Pier Paolo Pancotto. La Fondazione, questo è il nome scelto per designare il progetto e racchiuderne le molteplici attività – che spaziano dall’arte contemporanea al cinema passando per l’editoria e arrivando alla promozione di giovani artisti con uno spazio dedicato e pensato come una project room – si presenta come hub culturale, replicando a Roma un modello già ampiamente praticato all’estero, e raccogliendo la sfida di promuovere in città una programmazione che intenda far guadagnare al pubblico una sensibilità rinnovata a contatto con artisti di levatura internazionale e devoti a una ricerca di tipo sperimentale.
Con la mostra inaugurale, La Fondazione è riuscita nei suoi intenti.
Quattro gli artisti presentati – Geta Brătescu, Adrian Ghenie, Ciprian Mureşan e Șerban Savu, tutti con un curriculum vitae di rilevanza assoluta – insieme ad alcune opere del giovane artista Mateusz Chorobski. Le scelte curatoriali sottese al progetto e la mostra stessa descrivono le possibilità per una riscrittura della storia dell’arte che sia inclusiva e che tenga conto, come pertiene alla logica di quella che nasce come una fondazione senza scopo di lucro, dell’importanza della ricerca e della divulgazione come strumenti privilegiati per reinventare i luoghi della cultura. È in questo modo che viene attivato un dialogo spassionato, attraverso un incontro ravvicinato, in primis, tra curatore e artista. Aspetto primario, dunque, non è quello legato alla specificità della provenienza geografica – tutti gli artisti in mostra sono nati in territorio romeno, quanto piuttosto il legame a livello intimo e produttivo che emerge attraverso un percorso non obbligato, bensì circolare, continuo, fluido. Lo spazio, di circa 700 mq, accoglie le opere dei quattro artisti all’interno di un emiciclo che significativamente definisce un luogo aperto, dunque, per questo stesso motivo, costitutivamente sensibile allo scambio.
Geta Brătescu – artista che ha fornito un contributo decisivo al panorama artistico romeno, rappresentando nel 2017 la Romania alla Biennale di Venezia – costituisce una presenza femminile forte in un coro di voci maschili che ad essa inevitabilmente si richiamano sotto un profilo concettuale e mai meramente derivativo.
Con una pratica che abbraccia disegno, collage, fotografia, film sperimentali e performance, Brătescu ha sviluppato nel corso della sua lunga carriera una praxis che sconfina nella ricerca identitaria, in quella di genere e nell’urgenza di portare l’arte a una progressiva smaterializzazione tenendo sempre bene a mente la pratica costante del lavoro in studio. Ed è forse questa dimensione intima e raccolta, attraverso una pratica costante del fare, che diviene il fil rouge che pone in dialogo gli artisti e le opere esposte.
Molti i dipinti presentati – selezionati, come racconta il curatore, in un assoluto rapporto di scambio simbiotico con gli artisti – in cui il medium della pittura viene declinato attraverso un ritorno quasi costante alla narrazione – una narrazione che si fa racconto ma che diventa anche contemplazione, tra scene di vita quotidiana che assumono una sospensione nel tempo e nello spazio, a cui lo sguardo ben presto si abitua quasi associandosi.
Pittura, ma anche installazione, fotografia, video: un orizzonte multimediale in cui il residuo del regime comunista retrocede e si riassorbe in una pratica quasi contemplativa, dove le nostalgie del passato, l’indagine della persistenza delle ideologie, la memoria, la Storia emergono all’interno di una pratica del fare associata a una metodologia di approccio analitico della realtà. È così ad esempio che Adrian Ghenie mescola la componente concettuale a un attento studio dei maestri barocchi del chiaroscuro, mantenendo viva una gestualità espressiva che ne connota in maniera evidente tutto il lavoro.
Savu reinterpreta il realismo declinandolo attraverso la tradizione della pittura europea, soprattutto italiana e francese; paesaggi idilliaci celano la melanconia e l’aspetto perturbante dei setting ispirati alla Romania contemporanea.
L’indagine analitica di Muresan lo conduce invece a un approdo che è concettuale e ironico allo stesso tempo. Mescolando pratiche formali differenti – tra cui, video, scultura, installazione – l’artista si appropria dei canoni letterari, cinematografici, artistici, detournandoli e demistificandoli. Dal confronto tra queste personalità così diverse, legate a pratiche e linguaggi specifici, emerge dunque un punto di vista trasversale che lancia una possibile sfida, tutta da cogliere.