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Negli spazi di BONOTTOEDITIONS in via Durini 24 a Milano sono stati esposti dal 24 febbraio al 1 marzo alcuni lavori dell’artista australiana Jesse Darling, classe 1988, che vive e lavora a Londra. La curatela della mostra è di Geraldine Blais e Harry Woodlock. Si tratta di opere da lei realizzate durante la residenza presso la Fondazione Bonotto di Molvena e Nuove//LaPrima Plastics di Isola Vicentina, nata dalla recente unione fra l’identità di NUO-VE//Residency — progetto di residenza dedicato ad artisti interessati alla conoscenza, sperimentazione e produzione di opere in ceramica e altri materiali tipici della tradizione produttiva delle località di Nove, Marostica e Bassano del Grappa — e l’attività di LAPRIMA PLASTICS, industria del riciclaggio di materie plastiche mediante tecnologiche avanzate.
Chiarificatori i temi contenuti in una conversazione tenutasi tra l’artista e Luigi Bonotto. Si parla di arte, dell’essere artisti, della produzione delle opere, della loro conservazione, di come far vivere le opere una volta che sono passate per il mercato dell’arte, acquistate e posizionate in un deposito…
La Darling, anzitutto, si compiace del fatto che nella Fondazione Bonotto le opere siano state collezionate a partire da rapporti di amicizia e da un insieme di incontri personali e che siano a diretto contatto con i visitatori, i dipendenti, gli artisti… e non immagazzinate in un archivio chiuso e non vissuto. Per lei, come emerge poi nel suo lavoro, fondamentale è il rapporto con l’altro, il confronto, la condivisione di propositi ed idee. Non per nulla, social network quali Facebook, Twitter, Instagram e Tumblr assumono un ruolo incisivo nella sua pratica, in quanto si fanno serbatoio di espressioni sibilline, commenti teorici, aneddoti personali, riflessioni linguistiche, ma, soprattutto, perché le consentono di confrontarsi con altre persone, di leggere i loro commenti, di capire come ciò che fa e pensa viene recepito e metabolizzato da chi la segue. Non a caso nel 2014 ha dato luce a Londra al Kitson Road Living Project, casa per artisti e spazio per eventi d’arte rimasto attivo dall’inizio del 2013 fino a luglio 2014, poi trasferitosi nelle vicinanze e riconosciuto come Fernholme Road Living Project.
Tuttavia, internet non basta a garantire rapporti veri, è lei stessa a dire: “The other day Patrizio and Geraldine and I went to eat something and Patrizio said that it would be impossible now to imagine a situation in which artists gather together like this. I said that we have Facebook – and that we gather there! But we all agreed it wasn’t the same”. Parla poi della difficoltà di vivere, oggi, vendendo la propria arte, nonché di entrare nel mercato della stessa. Ammette di dover fare tre lavori diversi per potersi pagare l’affitto del suo studio a Londra…le rimane, d’altra parte, poco tempo per concentrarsi sulla ricerca, ma aggiunge, poi, forse con lieve sarcasmo e con un po’ di rammarico: “But while travelling and speaking I find ways to do my research (art as life, as you say)”.
Poi Luigi Bonotto le chiede: “Che differenza c’è tra un artista ed un artigiano? Cos’è l’arte?”
Lei risponde, sebbene senza estrema certezza (I am still thinking about it), ma forse nessuno potrebbe averne in tal proposito: “I think it is principally a question of labour and the valuation of commodity; a craftsman belongs to a class of workers whose goods are supposed to be useful, whereas artists belong to a class all alone – our objects are either the ultimate in bourgeois commodity or they are shamanic objects that symbolise a sort of spiritual use value (Credo sia principalmente una questione di lavoro e di prodotto: un artigiano proviene da una classe di lavoratori i cui beni sono considerati utili; invece, gli artisti derivano da una classe a sé stante: i nostri oggetti sono l’ultima tappa del prodotto borghese o sono qualcosa di sciamanico che simboleggia una specie di valore d’uso spirituale). E chiosa con questa definizione: art is somewhere between useless and religious, che ammette derivare in parte da Agamben. “In a way, my sculptures are just performing, and when the performance is over, they can resume other shapes. I think a lot about how art works live, how they need to find ways to stay alive after the fact of their production, or else they will die. A place of display is not enough to keep a work alive. Archival can kill a work of art”: le sue opere hanno bisogno di vivere e di essere vissute, ed è per questo che dice di essere d’accordo con la definizione di Fluxus di archivio storico come mausoleo o di galleria come camera mortuaria (è lei stessa a suggerire queste parole: mausoleum, mortuary) e aggiunge, “Archival can kill a work of art”.
E come vive la Darling il momento presente? Sembrerebbe in un sottile stato di rammarico, dovuto alla consapevolezza che le grandi azioni dei dadaisti, di Fluxus, dell’estetica relazionale, dell’espressionismo astratto, ecc… capaci di essere radicali o, meglio, avendo la possibilità di essere tali, non si possono più realizzare: “Everything feels like it has already been done; everything feels like it has already been institutionalised”. Ma, rifacendosi e riconsegnandosi alla secolare visione della storia in quanto ciclo che si ripete, aggiunge: “I don’t believe that the golden days are over forever”.
Nella mostra in via Durini 24 la Darling espone lavori nati dalla frequentazione di LaPrima Plastics, dove si riciclano materiali originari, dopo essere stati dapprima selezionati e suddivisi, poi triturati ed, infine, ricomposti tramite mescolamenti con materia prima. Il risultato è un nuovo materiale polifunzionale. Ecco come descrive lei questo processo: “I was surrounded by objects that were once worth money: shiny waste from the automobile industry and huge mountains of soft white shredded sanitary napkin all waiting to go in the grinder, where they will come out as clean dry grains that are once again worth something in monetary value”. I suoi lavori riflettono bene l’interesse verso il consumismo contemporaneo, che plasma e muta l’essere umano, dominato da determinate strutture di potere. In mostra sono sacchetti della spesa di plastica lievemente gonfiati e annodati, o biodegradabili (firmati Eataly, Esselunga, Pam, …) appesi ad una specchiera, stesi su un filo da biancheria nel giardino esterno come t-shirt appena strizzate, oppure appoggiati ad una croce di legno (con tanto di scritta “Arrivederci e grazie”): è quasi un mettere a morte la mercificazione di massa. Sull’acqua che riempie per metà la piscina presente nello spazio galleggiano frammenti dello stesso materiale dei sacchetti, che appaiono sbriciolati in piccola quantità anche vicino ad un muro, accostati ad una scopa, quasi fossero i rimasugli di un’azione di pulizia. E ancora, un ricordo lontano di manichino realizzato con elementi trovati supporta altri materiali di scarto, o appena usciti dal riciclaggio… Di queste opere, che sembrano indugiare, appoggiate contro le pareti o appese al soffitto, si è parlato (Ellen Mara De Wachter) anche come fossero segni di disfunzionalità eccentrica o di sgonfio eroismo.
Canedicoda: Adagio con Buccia
Negli stessi spazi di via Durini 24, Canedicoda, artista e designer residente a Milano, ha realizzato la seconda tappa del suo progetto Adagio con buccia, nato lo scorso anno a Bologna per Live Arts Week IV grazie alla collaborazione con la Fondazione Bonotto. A Milano ha creato un piccolo e temporaneo atelier, dotato di due macchine da cucire, pouf per far accomodare il cliente che si vuole vestire, tessuti vari firmati Bonotto. Canedicoda ha consentito ad un numero limitato di persone di accedere alla sua performance sartoriale, in cui realizzava ad personam e su appuntamento, senza pubblico astante, un capo d’abbigliamento, partendo dal tessuto grezzo. E’ la creazione di una nuova “buccia” a partire da un confronto in loco con il soggetto interessato, dopo un minimo accenno di conoscenza tra artista e “performer” e di interpretazione del “cliente”. Si parte sempre da un avvicinamento cauto tra due, ci si fa domande, si risponde a queste, quando si riesce… Confrontarsi con Canedicoda (il nome “Deriva da un gioco: la coda, elemento d’istintività e trasparenza, è proprietaria del cane, esempio di fedeltà”) è un po’ come bere un caffè con un nuovo amico, senza paura di esibirsi, senza reticenze varie. E poi, tra una parola e un sorriso, lui sceglie un tessuto, ti chiede se lo indosseresti, capisce quale abito sia meglio fare con esso e, soprattutto e in primis, appositamente per te che sei lì. Così, senza cartamodello (il capo deve essere unico ed irripetibile: nasce istantaneamente da tagli e cuciture irriproducibili una seconda volta, in quanto, si sa, umani) ti crea una seconda buccia, una seconda pelle, perché, ci tiene a sottolinearlo, vuole creare qualcosa che diventi tuo, che ti appartenga e che tu abbia voglia di indossare e condividere. Sarà prevista anche una pubblicazione finale, dopo aver realizzato più tappe in Europa e prodotto 100 capi.