Non possiamo accertare se il Padiglione Australia di questa 59° Biennale d’Arte di Venezia sia piaciuto a tutti quelli che lo hanno visitato. Possiamo, però, affermare che molti lo avranno sentito risuonare nella zona est della storica sede dei Giardini (me compreso).
Del resto, di incontrare i gusti del grande pubblico non importava nemmeno a Marco Fusinato, artista scelto fin dal novembre 2019 – il secondo a essere stato rivelato, dopo Yuki Kihara da parte della Nuova Zelanda – per rappresentare la nazione australiana in occasione di questa Esposizione Internazionale d’Arte targata 2022. Già nel febbraio di quest’anno, infatti, durante una conferenza a Sydney, Fusinato ha evidenziato quanto sia “completamente assurdo […] il presupposto che un artista debba fare un lavoro per essere piaciuto”.
E, in effetti, già dall’esterno, con quel suo frastuono persistente, il padiglione progettato dallo studio di architettura Denton Corker Marshall – il primo a essere stato ricostruito nel XXI secolo (2015) – fa intendere che qualcosa di strano sta accadendo al suo interno. Chi decide di avventurarvisi viene colpito da dei bagliori intensi, come flash provenienti da un’enorme macchina fotografica. Appena superato il pannello divisore, la scena che si pone davanti è quella di un individuo seduto su una cassa da trasporto con in braccio una chitarra elettrica – lo stesso Fusinato – affiancato da una doppia fila di amplificatori (dodici in tutto) e da un enorme schermo a LED. Su quest’ultimo, a velocità irregolare, scorrono miriadi di immagini in bianco e nero di qualsiasi tipo: opere d’arte, animali, paesaggi, città vuote o distrutte, rivolte, uomini armati, immagini satellitari. Sono queste a scatenare gli improvvisi flash luminosi; a scandirli, sono, invece, i suoni dello strumento musicale: metallici, singhiozzanti, stridenti, distorti… e, naturalmente, fragorosi.
Ci si accorge subito che tra i lamenti/urli della chitarra elettrica e la sequenza di immagini in grayscale vi è una connessione diretta, inscindibile. A spiegarla è lo stesso artista in un dialogo intrattenuto con Alexie Glass-Kantor, curatrice del padiglione: “Uso una chitarra elettrica come generatore di segnale all’interno di un’amplificazione di massa per improvvisare pezzi di rumore, feedback saturi e intensità discordanti che innescano un diluvio di immagini su una parete LED”. Interessante è cercare di capire il sistema che si cela dietro il funzionamento di DESASTRES – titolo dell’opera in questione – riportato schematicamente sul libricino di sala e sintetizzato sempre da Fusinato: “Il suono che genero va in un’unità di controllo costruita su misura che converte e sincronizza il suono con le immagini. L’unità mi permette di controllare vari stati dell’output come il panning, la velocità e la randomizzazione. Con la sua impostazione più lenta potrei stare su un’immagine per tutto il giorno, con quella più veloce si illumina a 60 immagini al secondo”.
L’eterogeneità costituisce, in effetti, il tratto dominante del repertorio visivo. Nonostante questo, si percepisce, tuttavia, un sottile filo conduttore che accomuna le diverse proiezioni, soprattutto se si decide di rimanere a osservarle per un po’ di tempo. Desolazione, paura, povertà, devastazione: sembrano essere queste le sfaccettature di un diamante che brilla incessantemente, rischiarando lo spazio del padiglione e mettendo a dura prova la nostra vista. Il pensiero, pertanto, va subito alla scelta del titolo, per nulla casuale: “Una delle prime parole che ho usato per cercare le immagini è stata ‘disaster’” (‘disastro’), ammette, infatti, l’artista.
Bisogna tornare indietro, al periodo del lockdown in Australia, per comprendere lo stato d’animo dal quale tutto prende avvio: “DESASTRES nasce dal vivere questo momento […]. Il riferimento è anche al contesto in cui Goya ha realizzato la sua serie Los Desastres de la Guerra (1810-20): sordo a causa della malattia, bandito in una fattoria, realizza la serie grazie alla sua immaginazione. Ero lì, intrappolato in una camera da letto a fare un lavoro per l’altra parte del mondo fissando un portale. Immaginando”.
E se è vero che lo schermo assume la conformazione di “una palude di immagini disparate e scollegate generate in modo casuale [senza] un tema in quanto tale”, è vero pure che tutte sembrano convergere in un punto ben preciso, come gli affluenti di un poderoso, inarrestabile fiume. Nell’intuirne la portata, c’è chi decide di evitarlo quasi subito – deluso, magari, dalle aspettative di assistere a chissà quale virtuosismo chitarristico – e chi accetta, al contrario, di venirne completamente travolto, come un alternativo Alex DeLarge (alias Malcolm McDowell) che, in un’improbabile rivisitazione di una celebre scena di Arancia Meccanica, accoglie di buon grado la brutale tortura di guardare film sadici e violenti.
A proposito di prove di resistenza, Fusinato rimarrà a Venezia a comporre giornalmente la propria opera per tutto il tempo della Biennale, ossia per un totale di duecento giorni – l’impresa più lunga della sua carriera. Anche questa scelta deriva da esperienze passate: “Una decina di anni fa ho iniziato una serie di performance intitolate Spectral Arrows. Questenascevano dalla frustrazione dei tour: volare 24 ore fuori dall’Australia per finire dall’altra parte del mondo a suonare per 30 minuti, scendere dal palco e pensare ‘aspetta… c’è di più’. Ho deciso che la prossima volta che avrei volato ovunque per esibirmi sarei rimasto tutto il giorno”, e così è stato.
Come un’alchimista dei nostri tempi, Fusinato continuerà, dunque, a mixare suono e immagini ricorrendo agli strumenti che più lo identificano – la sua attività artistica si compone, infatti, di un’importante parte musicale, data la professione di musicista noise – al fine di perseguire l’“intento […] di creare una sorta di allucinazione, di euforia nel disorientamento e di esaurimento nella confusione”. Toccando sapientemente i pulsanti di una pedaliera e le corde di una chitarra, proseguirà nella costruzione – in maniera del tutto inaspettata – dei suoi DESASTRES, come uno scultore che sceglie di affidarsi alle leggi non del “bronzo o [del] marmo, ma [di] vibrazioni che viaggiano nell’aria”. Il tutto, per far sì che “il pubblico si ricordi che è vivo”, anche qualora non fosse contento di ciò a cui sta assistendo.