Corpo, gravità, postura, accumulo, materialità, spazio, relazione. Intorno a questo vocabolario essenziale, intrinsecamente connesso alla storia della scultura antica e contemporanea, si articolano le opere di Bettina Buck (Colonia, 1974 – Berlino 2018) esposte nella retrospettiva ospitata dalla Sala Convegni di Banca di Bologna a Palazzo De’ Toschi, in occasione di ART CITY Bologna 2023.
La mostra Bettina Buck. Finding Form, aperta fino al 19 febbraio e curata da Davide Ferri col supporto del Bureau Bettina Buck, riscopre il lavoro di un’artista prematuramente scomparsa attraverso un excursus di vent’anni di attività. Le sue sculture grezze e disarticolate frutto di accumuli, posizionamenti e trasformazioni di materiali poveri reificano le forze e gli equilibri intrinseci alla materia, condensano relazioni tra corpi e geografie di affetti. La mostra è accompagnata da un libretto di sala che contiene un dialogo tra Ferri e Cecilia Canziani e una serie di commenti alle opere redatti da artisti italiani e internazionali che conoscevano bene l’artista e la sua pratica. Il curatore, durante la preview per la stampa, ha collegato il titolo scelto per la mostra al fatto che “la scultura di Buck non trova mai una forma stabile, è sempre in divenire: la vita è una ricerca inesauribile della forma, ma le forme a loro volta sono in grado di accogliere il divenire della vita”. E le opere esposte sono configurazioni instabili di forme anti-scultoree, assemblage di materiali prelevati dalla quotidianità e catturati in un attimo del loro divenire. Il fulcro attorno a cui si irradia l’allestimento è un’opera video dal titolo Interlude (2012) che riflette sul rapporto col corpo umano insito nella fisicità e nella scala di ogni oggetto a cui è attribuito lo status di scultura. Il video mostra l’artista impegnata nell’atto di trascinare dietro di sé un parallelepipedo di gommapiuma in una lunga camminata nella campagna inglese. Il solido di volta in volta assume diverse funzioni, intrinseche alle sue proprietà fisiche: è un impedimento che affatica il procedere e impegna a riflettere su ogni passo compiuto, come in una versione in tono minore del mito di Sisifo, ma se viene posato a terra ripaga la pena, perché consente il riposo e diviene un punto di osservazione sul paesaggio circostante. Il microfono ha catturato il fruscio del vento, che si riverbera come energia elettrostatica in tutta la mostra.
La dualità degli stati a riposo del corpo di gommapiuma, tra posizione stante e supina, parla anche di gravità e di baricentri variabili: una proprietà della materia che ritorna protagonista nelle opere vicine, 3 Upright (2nd Cycle) (2012) e Fallen (2008). Nel primo caso, tre colonne consunte svettano pericolanti e incomplete nello spazio e sono composte da piastrelle da cucina fissate su un foglio di tela; ciò comporta un’inversione di scheletro e pelle, sostenente e sostenuto. L’altra opera consiste in un mattone di polistirolo riverso sul pavimento sulla cui superficie scabra è stata innestata malamente una parrucca. Dall’accostamento violento dei due elementi scaturiscono immagini opache; così Italo Zuffi, nella sua didascalia, propone di vedere Fallen come una testa di cavallo rimasta appena sbozzata nei tratti, ma dalla criniera inspiegabilmente rifinita nei dettagli. Con la postura stante della statuaria classica ha a che fare anche il primo lavoro della sala, Plinth Drawings (2012), un cumulo di scatole di cartone. Il materiale fa pensare agli imballaggi usati per il trasporto delle opere d’arte, per cui si innalza a protagonista ciò che normalmente è un comprimario dimenticato della scultura, come se per osmosi da contatto prolungato avesse acquisito le proprietà immateriali dell’oggetto artistico, ma conservando parallelamente il connotato di materiale componibile e modulare, senza conformazioni definite. Ma un altro cortocircuito è dato dal fatto che i singoli elementi che compongono l’accumulo sono repliche dei basamenti di alcune sculture tra quelle che Auguste Rodin donò al Victoria & Albert Museum nel 1914: perciò, ad essere elevato al rango di scultura è il plinto che normalmente la sostiene, ma la sua individualità è negata dall’anonimato e dalla convivenza con altre basi simili. Sul muro esterno della stanza-nella-stanza in cui è proiettato Interlude sono abbandonate le due strisce di gommapiuma che compongono Two girls looking (2009). L’artista le aveva appoggiate ad una parete del proprio studio, poi si era resa conto che la forma spontanea che avevano assunto poteva suggerire il profilo di due ragazze sfinite che guardano davanti a sé. Secondo Ferri “sono originate da un gesto molto semplice, che mette insieme due verbi che potrebbero essere tra quelli di Richard Serra: ‘piegare’ e ‘appoggiare’”.
Poco lontano, Untitled (geophysics) (2012) è un contrappunto maschile, composto da un cilindro di gommapiuma contenuto dalle due metà di una pietra grezza; un lavoro che rivela il portato dell’Arte Povera insito nella ricerca di Bettina Buck. 72 sq m (2010), al contrario, è un oggetto leggero e fluttuante, uno spazio compresso e “nascosto”. Si tratta di un telo di plastica grande quanto la planimetria dello stand della galleria che rappresentava l’artista ad un’edizione della fiera di Colonia, accartocciato e inserito dentro un’altra sacca di plastica sospesa, come se il pavimento si distaccasse per levitare e riconfigurarsi in una nuova forma indefinita. Disperse nello spazio espositivo, le piccole fusioni in bronzo che compongono Platzhalter (2010) sono frutto dei calchi in schiuma poliuretanica ricavati dagli angoli delle stanze degli amici; ad essere esposta, pertanto, è la geografia affettiva dell’artista. Secondo Cecilia Canziani, la lista dei materiali che li compongono dovrebbe includere “il tempo trascorso tra il desiderio di un avvicinamento e l’incontro, il tragitto intrapreso, il tempo trascorso nello studio […], il bronzo che sigilla la forma dell’incontro e non ne restituisce che una parte infinitesimale”. Traccia di un processo è anche Object (proving) (2012), collocato nella stanza seguente, un corpo di creta che, essendo stato trasportato in automobile da Londra alla Germania quando era ancora crudo, porta i segni del viaggio nelle crepe che si sono formate sulla sua superficie. Untitled (Inflatable mattress) (2010) è una fotografia che mostra un materasso ad aria parzialmente sgonfio, appoggiato in verticale ad una parete. La fotografia è installata in modo da ripiegarsi come il materasso, in corrispondenza del punto in cui tocca il pavimento. Entrando in connessione con Two girls looking, installata dal lato opposto della mostra, Untitled (Inflatable Mattress) “ci fa sentire la terra sotto i piedi, la fisicità della stampa, dell’oggetto raffigurato e del nostro stesso corpo” (dalla didascalia di Chiara Camoni). Another Interlude (2015) consiste in una variazione sul tema del video esposto nella sala precedente. In questa ripresa, però, il parallelepipedo di gommapiuma è trascinato nelle sale della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e viene messo in dialogo e in contrasto con le opere esposte, facendosi panca per osservarle, corpo estraneo che impedisce il movimento oppure scultura tra sculture: emblematico, considerato il debito verso la poetica dell’Arte Povera che connatura il lavoro di Bettina Buck, è l’accostamento ad una colonna poggiata in modo instabile su una camera d’aria, opera del 1967 di Gilberto Zorio.
Come se fosse fuoriuscito dallo schermo, un grande parallelepipedo di gommapiuma si staglia nello spazio espositivo di Palazzo De’ Toschi, incastrato tra pavimento e soffitto. Se le colonne della stanza precedente abbracciavano l’instabilità e rigettavano la loro funzione archetipica di sostegno architettonico, Medusablock (2011) sembra riconfigurarsi come elemento strutturale, ma impropriamente, a causa dell’inadeguatezza del materiale; piuttosto, l’enfasi è posta sul fatto che, mentre nella brughiera inglese e nel museo romano il parallelepipedo era ben visibile e assumeva caratteri scultorei anche solo per contrasto col contesto circostante (in fondo sembrava alludere ad un blocco di marmo di Carrara ancora da scolpire), in questo caso la sua presenza si dissimula e si nasconde nello spazio espositivo, per quanto sia posizionato in maniera tale da interrompere il movimento inconscio del visitatore. Inoltre, al suo interno è celata una scultura tentacolare di Medusa, il cui sguardo letale è stato reso inoffensivo. La mostra si chiude con una “nota a piè di pagina” che è talmente defilata da trovarsi in un altro luogo della città, la galleria P420, in cui è stato ripristinato il lavoro Stairs, felt (Bologna) (2016), realizzato per una mostra precedente: una striscia di feltro è incassata in una fessura realizzata nel primo dei tre gradini che separano i due ambienti della galleria. Nel dialogo con Ferri, Cecilia Canziani individua uno degli aspetti più caratteristici del modo di lavorare di Bettina Buck nella “possibilità che la forma scultorea si sottragga alla vista e si defili nei margini non visibili o mai presi in considerazione, e che da quella condizione di invisibilità determini qualcosa attorno a sé, qualcosa che si misura sul piano dell’energia”. Se in Medusablock l’artista interpreta questo tema mettendo in correlazione una forma celata e un titolo, in un modo che trasforma un oggetto anonimo in un dispositivo che genera narrazioni, quella striscia di feltro pressoché invisibile si mimetizza a tal punto con lo spazio da inglobarlo ed attivarlo, caricandosi all’incedere dei visitatori ignari sullo scalino sopra di sé. L’opera, oltre che di una striscia di feltro, si compone di corpi e gravità, di posture e di equilibri.