ATP DIARY

Bertozzi & Casoni. Tranche de vie | Museo di San Domenico, Palazzo Tozzoni e Rocca Sforzesca, Imola

“L’unico vero realista è il visionario”, diceva Federico Fellini; una formula che si presta anche a commento delle opere del sodalizio artistico di Giampaolo Bertozzi (Borgo Tossignano, 1957) e Stefano Dal Monte Casoni (Lugo, 1961-2023), vanitas contemporanee che sulla riproduzione esatta del dato naturale tramite il medium della ceramica costruiscono un immaginario di simboli e […]

Non ricordo, 2014, ceramica policroma

“L’unico vero realista è il visionario”, diceva Federico Fellini; una formula che si presta anche a commento delle opere del sodalizio artistico di Giampaolo Bertozzi (Borgo Tossignano, 1957) e Stefano Dal Monte Casoni (Lugo, 1961-2023), vanitas contemporanee che sulla riproduzione esatta del dato naturale tramite il medium della ceramica costruiscono un immaginario di simboli e suggestioni surreali, parlante la lingua dell’ironia, della dissacrazione e della meraviglia. In tre sedi storiche di Imola, la città che da sempre ospita i laboratori di Bertozzi & Casoni, va in scena Tranche de vie, uno “spettacolo” in tre atti che ne ripercorre per la prima volta la storia in modo compiuto, dalla produzione aurorale dei primi anni Ottanta orientata ad un recupero della tradizione della ceramica artistica in dialogo con il mondo del design, fino agli esiti più virtuosi e mimetici degli ultimi anni, densi di rimandi alla storia dell’arte. La “pièce”, curata dal direttore di Imola Musei Diego Galizzi e in corso fino al prossimo 18 febbraio, si diparte dal chiostro del Museo San Domenico con una retrospettiva sui primi lavori, si sviluppa con l’insediamento di più di trenta opere della maturità nelle sale tardo-barocche di Palazzo Tozzoni e arriva al culmine alla Rocca Sforzesca, con la prima esposizione di un’opera monumentale, La morte dell’Eros, concepita da Stefano Dal Monte Casoni più di vent’anni fa e portata a compimento negli ultimi mesi da Giampaolo Bertozzi, come ricordo e omaggio al sodale di una vita, scomparso recentemente.

Macchina bianca, 1987, maiolica

Presso il Museo San Domenico la retrospettiva In nuce. 1980-1997 guida alla riscoperta degli oggetti-sculture al confine tra il design e l’artigianato artistico prodotti dal duo nel primo ventennio di attività, in molti casi esposti per la prima volta, a partire dalle creazioni uscite dal laboratorio ceramico che segnò l’inizio della loro pratica, definito dal calembour “L’arte del già nato”. Da queste creazioni emerge chiaramente un interesse verso la mimesi del dato naturale, giocata sulla modellazione della maiolica al fine di evocare elementi fitomorfi, sulle nuance tratteggiate a pennello, o sull’arricchimento delle superfici con asperità accidentali – come la pinna dorsale di un Pesce (1982), i rametti filamentosi di un nido (I nidi del cuore, 1981), gli sbuffi vaporosi di una nuvola-acquasantiera abitata dal profilo dipinto di un Principe (1982). Un primo momento di svolta nella produzione di Bertozzi & Casoni è rappresentato, nel 1984, dall’avvio di una collaborazione con il Centro Internazionale di Studi e Sperimentazione sulla Ceramica, un luogo di ricerca connesso alla Cooperativa Ceramica d’Imola che mise in stretto contatto artisti e designer, tra cui Gio Ponti. In questa fase i due artisti si misurano con la progettazione di oggetti d’uso, senza rinunciare al decorativismo e all’aperta ironia, che sfida l’effettiva funzionalità: è il caso del vassoio Zoomorf (1986), claudicante su palafitte arabescate, o del vaso Transmazurka (1986), quasi una navicella marziana atterrata in un interno domestico, da cui forse è fuoriuscito uno strano essere coronato da quattro bulbi luminosi – in verità la lampada Gulp (1986). E ancora servizi da tè e da caffè, candelabri dinoccolati, accessori da scrittoio. In questi anni Bertozzi & Casoni partecipano a varie edizioni di Abitare il Tempo a Verona e della Triennale di Milano e, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, si aprono alle collaborazioni con artisti e designer come Ugo La Pietra, Joe Tilson e Arman. Parallelamente, espandono la loro ricerca espressiva ai grandi formati, concependo una Ballerina biancanera (1988-91) dalla gonna svolazzante alta più di due metri, o la massa sbozzata di un gigantesco giocattolo semovente che richiama, in simil-cartapesta, le fattezze di un Re (1988-90). Rispetto alle prime fasi produttive, a partire dall’inizio degli anni Novanta si assiste ad un graduale recupero dell’espressività data dal biancore lattimo della maiolica, giocato a contrasto con una resa sempre più realistica dell’epidermide di altri materiali come il legno, a rinnovare ancora una volta il costante rimpallo tra realtà e finzione. La sfida all’uso asetticamente funzionale degli oggetti si rinnova nella chaise-longue Dormigliona (1991), che sembra ricordare il cockpit di un bolide di Formula 1, o nelle calzature fiorite di ceramica Zoccolo Orange (1994). O ancora nel Picnic table (1990), che è a conti fatti un’installazione: un tappeto di fiori in lana su cui svetta il profilo in alluminio lucidato di una montagna abitata da un cestino da picnic, tazze, caraffe e vassoi fioriti in maiolica; un’invenzione fantasiosa, in cui si avverte un’eco dei Tappeti-natura di Piero Gilardi, anch’essi riquadri apertamente artificiosi di paesaggio.

Go-Go, 1989, maiolica dipinta
Scegli il paradiso, 1997, ceramica policroma, h. cm. 196 | Foto Bernardo Ricci

Nel 1992 si registra l’avvio di un nuovo indirizzo di ricerca nel segno di uno pseudo-minimalismo plastico, rappresentato da La prima pietra, all’apparenza un altro grande giocattolo su ruote che assume però le fattezze di un parallelepipedo frastagliato, le cui superfici, invece di offrirsi alla trasmissione di un messaggio plateale, vengono riempite di fiori dipinti. È questa una prima allusione divertita alla deriva pubblicitaria ed imprenditoriale in atto nel sistema dell’arte di quegli anni, sempre più sensibile alla capacità degli artisti di autopromuoversi come veri e propri brand. Bertozzi & Casoni, già istituzionalizzatisi a partire dal 1980 in una società in nome collettivo, abbracciano queste nuove dinamiche non senza un grado latente di ironia corrosiva, dotandosi del loro poi celebre marchio di fabbrica, un bersaglio a cerchi concentrici bianchi e neri che viene anche integrato nel repertorio decorativo. La distillazione delle forme dai virtuosismi fitomorfi, già dichiarata dalla prodromica Prima pietra, trova un altro esito limpido nell’installazione Bosco sacro (1993), in cui sei cilindri, che solo delle scritte sulle rispettive basi dichiarano essere alberi, sono innaffiati amorevolmente da un giardiniere vestito di fiori. L’atto di “sfoltimento” viene emblematicamente messo in atto in Scegli il paradiso (1997), una rappresentazione della Madonna che passa col tosaerba sopra un prato, adornando la sua veste dei fiori recisi, mentre il Bambino a terra gioca con una raganella, alludendo alle interazioni con gli animali dai connotati simbolici tipiche delle Sacre Conversazioni rinascimentali. L’opera, che entra adesso a far parte della collezione del Museo di San Domenico, rappresenta un punto di non ritorno nel percorso artistico di Bertozzi & Casoni nella direzione di un rinnovato interesse verso la mimesi, tradotto da allora in avanti in composizioni virtuosistiche dense di riflessioni sul mondo contemporaneo, come di omaggi alla storia dell’arte. Nella collezione permanente ne danno prova altri lavori donati dagli artisti, tra cui Nulla è come appare (2018), un trittico di specchi (uno concavo, uno convesso, uno piano) in cui si rimirano dei pappagalli appollaiati su teschi dal naso allungato. L’opera offre una riflessione sull’eterna menzogna perpetrata dall’arte nella sua ricerca del verosimile: il (triplice) teschio di Pinocchio, che ammette un inganno reiterato, viene distorto dalle ondulazioni degli specchi, richiamando così la celebre anamorfosi del Ritratto degli ambasciatori di Holbein; la stessa sorte tocca ai pappagalli, essi stessi animali ambigui e trasformisti, data la loro capacità di imitare la voce umana. Ma, contrariamente ai pappagalli vivi esposti da Jannis Kounellis di fronte a tele monocrome nella storica mostra alla Galleria L’Attico (1967) – esplicito antecedente a cui guardano gli artisti –, questi sono bloccati nell’eterno presente della ceramica. “L’arte in qualche modo mente sempre, si arrampica sugli specchi – commenta Bertozzi in occasione dell’anteprima per la stampa – ma ne ha bisogno per fare il proprio lavoro, che è quello di creare cose belle, il cibo dell’anima. Abbiamo inventato questa formula del teschio col naso da Pinocchio per dire che noi artisti mentiamo, ma anche che è una menzogna a buon fine”.

Architettura e design, 2023 (foto di contesto), ceramica policroma | Foto Nazario Spadoni
Adesso, 2009, ceramica policroma | Foto Nazario Spadoni

È con questa rinnovata consapevolezza che si accede alle sale del settecentesco Palazzo Tozzoni, nucleo della Tranche de vie, in cui le opere in ceramica di Bertozzi & Casoni sono disseminate (e dissimulate) tra gli arredi antichi, che si prestano al ruolo di quinte sceniche di un teatro immersivo. Sin dal salone da cui si accede al piano nobile, una scimmia, di nuovo un animale dell’inganno per le sue affinità con gli esseri umani, mostra beffarda la tela della Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer, come se l’avesse strappata dalla quadreria circostante (Macaco dell’arte, 2019). È un avvertimento: varcata la soglia, tutto può essere. La prima impressione che si ha vagando per le stanze cristallizzate nel loro aspetto risalente a tre secoli fa è che nuovi inquilini dai gusti eccentrici vi si siano recentemente insediati, aggiungendo soprammobili e suppellettili spiazzanti, come un maestoso busto arcimboldesco (Inverno, 2018) o due caotici intrichi di tubi appesi alle pareti (Composizione-scomposizione n. 2 e n. 7, 2007). Alcuni indizi – un paio di scarpe da ginnastica abbandonate (Nelle tue scarpe. Un’epifania, 2022), una borsetta rosa appoggiata su una poltroncina (Alice, 2023), una Busta della spesa (2023) lasciata sul tavolo di cucina, addirittura una custodia di violino che nasconde al proprio interno alcune medicine e una inquietante bomba a mano (Cover, 2023) – lasciano pensare che i proprietari siano appena rincasati e che si trovino in altri ambienti del grande palazzo, inconsapevoli della presenza del visitatore, inoltratosi improvvidamente nei loro appartamenti privati. Non sembra però turbato dall’intruso il cane di famiglia, accoccolato nella stanza padronale davanti alla sua cuccia ricavata da scatole Brillo Box, ennesima reinterpretazione delle confezioni di spugnette abrasive riprodotte in legno dipinto da Andy Warhol (Cuccia Brillo con setter inglese, 2018); e si innescano riflessioni, sulla scia di Arthur Danto, riguardo a come in questo caso Bertozzi & Casoni imitino la matericità del cartone in maniera più strettamente mimetica rispetto all’artista americano, e allo stesso tempo risemantizzino un oggetto rimasto fortemente legato a quell’ascendenza artistica; e così facendo, divergono da Warhol, più interessato all’accatastamento anti-museale delle scatole tipico dei magazzini dei supermercati che non alla riproduzione esatta dell’oggetto in sé, ma anche da Mike Bidlo, che invece è attento a replicare esattamente le installazioni dell’illustre predecessore, distaccandosi dal contatto diretto con il prodotto commerciale. Assorto nei suoi pensieri, il visitatore si accorge solo in un secondo momento che il motivo per cui il cane non ha reagito alla sua presenza è il granchio zampettante nella sua ciotola, che ne ha attirato l’attenzione.

Cuccia Brillo con setter inglese, 2018, ceramica policroma

Ecco che ad uno sguardo più attento si dispiega un sottobosco domestico brulicante di vita; a pochi passi di distanza, un cestino della spazzatura è colonizzato da una famiglia di chiocciole (Cestino della discordia, 2002), mentre sulla borsetta rosa già notata nella stanza precedente si è posata una farfalla. Anche i vasi di fiori disseminati nei vari ambienti mostrano diversi gradi di vitalità: da quello cristallizzato in una patina d’altri tempi, e infatti dichiaratamente prelevato da una natura morta dipinta da Morandi (Per Morandi, 2020), ad un umile barattolo di latta che contiene fiori secchi (Paulista, 2023), ad un altro vaso ben più rigoglioso che ripresenta l’eterno gioco degli inganni, tra gli insetti dipinti sul contenitore e quelli “realmente” posati sui fiori (Vaso con mazzo di fiori, 2010). E altri fiori sbocciano persino da un paio di guantoni da boxe (Preghiera, 2022), come da un piccolo abete reciso e steso a terra (Evergreen, 2020); ma anche dalle corna della testa mozzata di un cervo in mostra su un vassoio (Dove Come Quando, 2014), manifestazione orrorifica e spiazzante che, sotto il velo di calma apparente, nelle sale di Palazzo Tozzoni pulsano anche il decadimento e la putrefazione, in ciclo perpetuo con lo sbocciare della vita. Così, anche una altrettanto macabra catasta di ossa umane coronata dal corno arricciato di un ariete si tinteggia del rosso di piccole coccinelle (Ossobello, 2007). Come nota Diego Galizzi nel testo in catalogo, si tratta di tanti “fotogrammi di un film che rappresenta con strisciante amarezza l’esaurirsi dei ‘momenti di gloria’ delle cose, ma allo stesso tempo le riscatta decantandone le seconde vite, eventuali e insospettabili, e celebrandone l’assoluta bellezza pur nel loro stato di reliquie”. Al visitatore sempre più abbacinato da questo sogno vigile si palesa, scheletrica, la Morte in persona; ma la Nera Mietitrice ha posato la falce a terra e siede annoiata ad un tavolino da caffè, mentre consulta un elenco telefonico, evidentemente indecisa sulla prossima vittima (Riflessione sulla morte, 2008). Il malcapitato si allontana turbato, scende al piano inferiore e incontra il tavolo da pranzo, su cui sono accatastati i piatti sporchi degli avanzi di un banchetto sontuoso e raccapricciante; su tutto domina la testa di una scimmia che non è riuscita a scampare all’appetito famelico dei commensali (Resistenza 2, 2017). Più oltre, nella biblioteca, ecco un altro apice surreale: un Pinocchio anziano siede su una pila di volumi che ne narrano la storia, rimembrando malinconico il tempo delle favole (Non ricordo, 2014). Dopo questo incontro inaspettato, il visitatore ritorna alla luce e al quotidiano e si dirige verso la Rocca Sforzesca, consapevole che lì lo attende l’ultimo atto di questo teatro dell’assurdo che è in fondo specchio del sublime e tragico andirivieni della vita. In un’ampia sala voltata appare ai suoi occhi La morte dell’Eros: un fauno impiccatosi ad un lampadario in stile Capodimonte, che rappresenta nel gesto estremo la fine dell’età dell’oro, le morte stagioni, l’appassimento della vitalità. Come nei quadri barocchi, la Morte giunge nel mondo idilliaco d’Arcadia. Ma Bertozzi & Casoni ci hanno mostrato che ad ogni fine segue un nuovo inizio; che il ricordo di ciò che è stato continua a guidare i passi di chi resta.

Preghiera, 2022 (foto di contesto), ceramica policroma | Foto Nazario Spadoni
Dove Come Quando, 2014, ceramica policroma
Inverno, 2018, ceramica policroma
Bertozzi & Casoni, La morte dell’Eros, installazione presso la Rocca Sforzesca, Imola