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Andreas Gursky. Visual Spaces of Today | Fondazione MAST, Bologna

A chi si interessa anche solo tangenzialmente al mondo della fotografia contemporanea, il nome di Andreas Gursky (Lipsia, 1955) è certamente noto. Può esserlo, innanzitutto, per le valutazioni stellari che le sue fotografie hanno raggiunto a partire già da più di venti anni fa. Oppure perché alcuni suoi scatti sono già a tutti gli effetti […]

Andreas Gursky, Amazon, 2016 | © ANDREAS GURSKY, by SIAE 2023 | Courtesy: Sprüth Magers

A chi si interessa anche solo tangenzialmente al mondo della fotografia contemporanea, il nome di Andreas Gursky (Lipsia, 1955) è certamente noto. Può esserlo, innanzitutto, per le valutazioni stellari che le sue fotografie hanno raggiunto a partire già da più di venti anni fa. Oppure perché alcuni suoi scatti sono già a tutti gli effetti nella storia dell’arte, rappresentanti iconici di una sontuosa fotografia di grande formato costruita con la sapienza tecnica di un artigiano delle immagini. Rappresenta pertanto un’occasione preziosa per il pubblico italiano la mostra Visual Spaces of Today, in programma fino al prossimo 7 gennaio presso la Fondazione MAST di Bologna, prima monografica e antologica del fotografo tedesco nel nostro Paese. La mostra, a cura di Urs Stahel, espone 40 fotografie che spaziano in tutto l’arco della sua carriera, andando da alcuni lavori della fine degli anni Ottanta fino a produzioni degli ultimi anni. Si celebra così il decimo anniversario di Fondazione MAST e il centesimo dell’azienda G.D., uno dei soci fondatori. La mostra è accompagnata da un catalogo pubblicato dalla fondazione, con un testo critico del curatore. Inoltre, farà parte della prossima edizione di Foto/Industria, la Biennale di Fotografia dell’Industria e del Lavoro in programma dal 18 ottobre al 26 novembre. La selezione portata in mostra intercetta i temi che da sempre Fondazione MAST ricerca attraverso la lente del medium fotografico: il mondo del lavoro e dell’industria, i progressi della scienza e della tecnologia, i risultati e i fallimenti della società contemporanea. “Gli spazi visuali d’oggi” sono pertanto da identificare innanzitutto con alcuni luoghi che restituiscono un ritratto per antonomasia del capitalismo e della globalizzazione, come nei casi del dittico 99 Cent II (2001) e di Amazon (2016). Le prime due fotografie, scattate in un grande magazzino di prodotti venduti a 99 centesimi, come anche l’altra immagine che invece mostra l’interno di un centro di smistamento della nota multinazionale situato in Arizona, esplodono nel grande formato (si tratta di stampe di oltre tre metri per due), che soffoca lo sguardo dell’osservatore con migliaia e migliaia di prodotti schierati in file parallele. Se tra un reparto e l’altro di 99 Cents qua e là ancora spuntano le teste di alcuni avventori alla deriva, per quanto prossimi ad annegare nell’oceano di confezioni colorate, in Amazon ogni presenza umana è venuta meno; impera un brulichio di prodotti, pronti ad essere spediti e a colonizzare le case di milioni di consumatori.

Andreas Gursky, 99 Cent II, Diptychon, 2001 | © ANDREAS GURSKY, by SIAE 2023 | Courtesy: Sprüth Magers
Andreas Gursky, Apple, 2020 | © ANDREAS GURSKY, by SIAE 2023 | Courtesy: Sprüth Magers

Non potrebbe essere maggiore la distanza rispetto ad un altro tempio del capitalismo occidentale, la sede di Apple a Cupertino, che appare al contrario eterea e solenne in una foto scattata all’interno di uno degli anelli vetrati che caratterizzano l’architettura di Norman Foster, costellato di tanti plinti con idoli laici – i prodotti più iconici dell’azienda (Apple, 2020). In mostra sono presenti anche alcune fotografie di interni di fabbriche e impianti manifatturieri risalenti all’inizio della carriera di Gursky, come Siemens, Karlsruhe (1991) e Grundig, Nürnberg (1993), che per la loro gamma tonale insatura, il formato standard e lo sguardo documentaristico ancora devono molto alla lezione di Bernd e Hilla Becher, professori all’accademia di Düsseldorf presso cui Gursky si è formato assieme ad altre personalità che oggi dominano la scena mondiale in ambito fotografico, come Thomas Ruff, Thomas Struth e Candida Höfer. Ma se in queste sequenze di postazioni di lavoro, macchinari e merci impilate risuonano i ritratti in bianco e nero dell’archeologia industriale tedesca praticati dai maestri di Gursky, sono comunque già percepibili con chiarezza alcuni stilemi che saranno propri degli sviluppi futuri della pratica del fotografo e che esploderanno nel grande formato di fotografie come Amazon, come il punto di vista rialzato che dà giustizia della vastità degli ambienti e la bulimia di dettagli serrati in griglie ordinate. Tutta l’opera di Andreas Gursky espande su metri e metri di superficie di stampa ricercati ritmi compositivi, costruiti attorno a pieni e vuoti, bilanciamenti di forme, fughe in profondità su orizzonti infiniti, geometrie e dinamismi. Gursky è un progettista dell’immagine, che non si limita a ritagliare inquadrature con il proprio obiettivo ma agisce anche in postproduzione per fondere insieme plurimi scatti ed eliminare presenze che sbilanciano i pesi formali. Per Urs Stahel il fotografo “non cerca tanto di individuare un motivo (attraente) davanti a uno sfondo – per poi ingrandirlo quasi a dismisura – quanto piuttosto di mostrare situazioni, costellazioni, compagini, estrapolandone strutture sovrastanti o sottostanti, rendendo visibili i nessi sociali di avvenimenti o azioni. Da un lato in sintesi visuali di molti singoli dettagli in modo da formare una sorta di carta geografica fotografica – cioè una specie di mapping – oppure, dall’altro lato, in condensazioni in modo da formare immagini dal carattere simbolico, che ciononostante non rivelano completamente il loro significato descrittivo” (dal testo in catalogo, p. 15).

Andreas Gursky, Bahrain I, 2005 | © ANDREAS GURSKY, by SIAE 2023 | Courtesy: Sprüth Magers

Rhein II (1999) è una concatenazione di piani orizzontali che fuggono a perdita d’occhio, ma l’assenza di qualsivoglia riferimento a cui ancorare la prospettiva (il fotografo ha rimosso a posteriori le fabbriche ed altri elementi realmente esistenti in quel paesaggio) inganna lo sguardo: sembra, paradossalmente, azzerare ogni profondità e restituire una composizione astratta di bande bicromatiche. Questa soluzione visiva acquisisce una chiave di lettura più critica in El Ejido (2017), scattata in Spagna in una località nota per la produzione intensiva di frutta e verdura in infinite batterie di serre; se in Rhein II il fiume era in un qualche modo restituito alla sua purezza pre-antropica, qui sono tali strutture a costituire insieme un “fiume” artificiale, annunciato, in primo piano, da centinaia di prodotti plastici disseminati su un prato verde. Ma anche un campo di tulipani olandese o il circuito di Formula 1 del Bahrain, se opportunamente osservati da una prospettiva a volo d’uccello e riquadrati dal formato verticale, possono scorporarsi il primo in una serie di bande di colore sovrapposte e quasi appiattite sulle due dimensioni (Senza titolo XXI, 2016), il secondo in un libero fluire di pennellate di asfalto nero stese variando l’angolo di incidenza sull’imprimitura uniforme del deserto (Bahrain I, 2005) – e questo continuo riverbero di suggestioni astrattive è un lascito del secondo cardine della formazione del fotografo, vale a dire la scuola di Otto Steinert ad Essen. Il punto di vista rialzato riesce a conferire un principio ordinatore perfino all’orografia accidentale di una discarica, abbracciandone la distesa di rifiuti con l’ambizione di catalogare ogni accidente (Senza titolo XIII, 2002). È nella più recente Salinas (2021), scattata ad Ibiza, che il mosaico di forme trova un apice ineguagliato: il cielo lievemente arrossato dal tramonto, incuneatosi tra le quinte delle colline ondulate, svapora le saline che si estendono dal primo piano all’orizzonte; solo la rete di strisce di terra che le delimita riesce, a fatica, a tenere separate aria ed acqua, altrimenti prossime al collasso. Il paesaggio, apparentemente incontaminato, è stato ridisegnato nel profondo dalla produzione plurisecolare di sale e, come un monito, la presenza umana si palesa di nuovo nelle due scie di aeroplani che solcano il cielo. I paesaggi di Gursky appaiono, anche grazie al grande formato, come monumentali oasi edeniche e fuori dal tempo, ma in modo più o meno esplicito si rivelano sempre, ad uno sguardo più attento, come terre dell’Antropocene, cesellate e plasmate dalle necessità umane – ed è sulle simmetrie regolari di insediamenti e piantagioni, sovrascritte alle asperità naturali, che sono costruite le armonie compositive delle inquadrature.

Andreas Gursky, Salinas, 2021 | © ANDREAS GURSKY, by SIAE 2023 | Courtesy: Sprüth Magers
Andreas Gursky, Les Mées, 2016 | © ANDREAS GURSKY, by SIAE 2023 | Courtesy: Sprüth Magers

L’antropizzazione, talvolta dissimulata o presente in assenza (come nelle fabbriche rimosse a posteriori da Rhein II), erompe nelle onde di pannelli solari che cavalcano le colline di Les Mées (2016), oppure nel tappeto zigzagante di automobili e container che gremisce il porto di Salerno (Salerno I, 1990). Per approdare infine alla summa dell’artificio: l’interno immaginifico di un osservatorio di neutrini giapponese, un cilindro composto da migliaia di sfere dorate e normalmente pieno d’acqua, ma “immortalato” (in realtà la foto è stata costruita a posteriori) durante un’operazione di controllo da parte di alcuni tecnici a bordo di un gommone, dopo averlo parzialmente drenato. Il grandangolo ribassato che incurva ed espande il soffitto del cilindro, il riflesso delle sfere sulla superficie dell’acqua, le sagome minuscole degli operatori trasmettono nell’insieme una sensazione di astratta ineffabilità, amplificata dalle enormi dimensioni di stampa (Kamiokande, 2007). Nella minoranza dei casi in cui il campo di visione dell’obiettivo si riduce alla scala umana, sono le folle come masse uniformi e dinamiche ad assurgere al rango di elemento ordinatore della composizione: è il caso delle innumerevoli intrecciatrici di vimini di una manifattura vietnamita (Nha Trang, 2004), oppure della marea di giovani in una discoteca di Francoforte, un tutt’uno con le onde e i riflessi dell’architettura organica (Cocoon I, 2007). Il desk centrale della borsa valori di Tokyo è un gorgo che risucchia fiumane vorticanti di uomini in giacca e cravatta, il cui movimento talvolta sfuma nella lunga esposizione (Tokyo Stock Exchange, 1990). In F1 Boxenstopp I (2007) i due team di tecnici della Ferrari e della BMW, incastri epici di corpi fissati nell’attimo di un pit-stop sincronizzato durante una gara di Formula 1, si trasfigurano in eterni altorilievi ellenistici estremamente contrastati dalla luce, che ne fa risaltare le tute accese di rosso e di bianco davanti agli spettatori – comuni mortali – che si affacciano dal buio. Ma nel perfetto equilibrio oppositivo tra le masse cromatiche permane un certo grado di astrazione; parlano la stessa lingua segnica, in un’altra fotografia apparentemente molto distante, le insegne di Toyota e Toys’r‘us, isole di colore saturo su un tappeto a scale di grigi, dall’asfalto dell’autostrada alle facciate degli stabilimenti fino al cielo solcato da cavi elettrici (Toys’r‘us, 1999). Se in questo caso le lettere spiccano per la loro fisicità iconica, in un’altra circostanza Gursky ricorre alla parola scritta per le sue proprietà semantiche, avvicinandosi in picchiata al linguaggio assertivo dell’arte concettuale: ritornando a distanza di anni a fotografare l’edificio della Hong Kong Shanghai Bank progettato da Norman Foster, ne trasfigura le finestre a nastro, che di notte vengono occultate da tapparelle, rendendole ideali schermi digitali su cui “far scorrere” messaggi lapidari che invitano a riflettere sul presente (Hong Kong Shanghai Bank III, 2020). Gli statement spianano la facciata del palazzo su una superficie di stampa di oltre tre metri per due: ne risulta una sorta di monumentale manifesto che, invece di declamare una nuova, trionfale visione del mondo, piuttosto allarma sulla sempre più repentina accelerazione della storia.

Andreas Gursky, Salerno, 1990 | © ANDREAS GURSKY, by SIAE 2023 | Courtesy: Sprüth Magers
Andreas Gursky, Tokyo Stock Exchange, 1990 | © ANDREAS GURSKY, by SIAE 2023 | Courtesy: Sprüth Magers
Andreas Gursky, F1 Boxenstopp I, 2007 | © ANDREAS GURSKY, by SIAE 2023 | Courtesy: Sprüth Magers
Andreas Gursky, Hong Kong Shanghai Bank III, 2020 | © ANDREAS GURSKY, by SIAE 2023 | Courtesy: Sprüth Magers