Nel 1992 il curatore belga Jan Hoet coinvolge, in una storica edizione di Documenta, una giovane Liliana Moro (Milano, 1961). L’artista elabora l’idea di raggiungere la città tedesca con una FIAT 126 rossa, la sua auto personale, per poi ancorarla alla parete di fondo della Neue Galerie con un cavo d’acciaio che avrebbe attraversato l’intero spazio espositivo. Il progetto non fu mai realizzato, ma ne rimane una traccia in Spazi, un’installazione concepita nel 2019 per la partecipazione di Moro alla 58. Biennale di Venezia, composta da modellini dei progetti espositivi prodotti a partire dalla fine degli anni Novanta. Spazi è tra le opere esposte al PAC, a Milano, per la personale di Liliana Moro a cura di Letizia Ragaglia e Diego Sileo, in collaborazione con il Kunstmuseum Liechtenstein di Vaduz, che ha ospitato la mostra fino ad aprile 2024. Il titolo Andante con moto ne svela già delle caratteristiche: protagonista assoluto è il suono, che avvicina e impegna il visitatore; si riferisce poi all’omonima opera che conclude il percorso sul piano superiore, realizzata in occasione della mostra a Vaduz, contenente tutti gli elementi che caratterizzano da sempre la pratica dell’artista: il suono della sua voce, gli oggetti del quotidiano, una riflessione sulle potenzialità sceniche dello spazio e un grande amore per Samuel Beckett. Il suono è per Liliana Moro innanzitutto materia immateriale che “ti sbatte addosso”, qualcosa che modifica lo spazio, multisensoriale, ma soprattutto un mezzo di relazione, uno spazio libero in cui si mettono in moto dei processi immaginativi.
Che tu sia da solo o in compagnia devi prestare molta attenzione dall’inizio alla fine, devi prenderti il tuo tempo e accogliere quello che le opere di Moro ti stanno suggerendo. In primo luogo è appunto l’attenzione: In no time (2024) è il suono discontinuo di una goccia che cade in modo aritmico protetto da una coperta di pile gialla, arrotolata e chiusa da due cinghie rosse. La piccola In no time è preceduta dalla più evidente e rumorosa …Senza fine (2010), una tromba acustica, posta all’ingresso del PAC, dal quale squillano infinite versioni di Bella ciao. Il legame tra queste opere ci posiziona al cospetto di una riflessione sulla politica e sulla protezione, sul peso di una parola urlata, ma spesso ignorata e depotenziata, e alla leggerezza di un esercizio all’attenzione sensibile. La goccia che suona a cadenza discontinua è fragile, una voce flebile protetta dalle coperte e dalle cinghie.
Le voci richiedono attenzione e alcune di queste attirano il nostro interesse perché sono “colorate, rumorose e fuori moda”, come le ha definite Angela Maderna nella guida della mostra. Se Le nomadi (2023) ci appare familiare è perchè probabilmente le abbiamo incontrate nel tragitto in metro per arrivare qui. L’opera si compone di una serie di carrellini portavaligie sui quali Moro ha legato uno zaino, un lampioncino da giardino e altri oggetti. Rappresentano ognuno una donna influente nella biografia intellettuale di Liliana Moro, come Maria Callas alla quale dedica uno zaino da cui echeggiano le sue arie più famose, ma c’è di più. In un’intervista con la curatrice Ragaglia, l’artista rivela che il lavoro nasce dalla curiosità verso alcune figure, spesso delle donne, che nella metropolitana cantano per intrattenere i passeggeri con delle casse e un microfono trasportati in zaini molto simili a quelli in mostra. Le nomadi sono queste figure che viaggiano da un punto all’altro della città, forse vagando in altri luoghi, portando con sé lo stretto necessario. Il nomadismo per alcuni può essere una scelta di libertà, per altri invece uno stile di vita obbligato, una riflessione che lascia in ombra la storia di queste persone che, nella nostra quotidianità, ricoprono un momento fugace.
A questo punto della mostra Moro chiede di camminare su un pavimento ricoperto di vetri rotti, e noi dobbiamo fidarci o quanto meno assumerci la responsabilità di compiere questo gesto. È un atto che parte incerto e titubante, che diventa poi guilty pleasure quando la sala si riempie del suono dei nostri passi e noi – per ora – non ancora feriti dal vetro, possiamo continuare. Il titolo dell’opera è “ “, e tanto basta perché lo spazio vuoto si riempia di un suono e rimanga uno spazio aperto indefinibile, liberatorio.
Si continua poi con l’opera La passeggiata (1988), tra le più celebri dell’artista, significativa anche per essere stata esposta nel 1988 a Novi Ligure, durante la mostra Politica del, per o riguardante il cittadino, il momento in cui Liliana Moro, con il gruppo storico degli artisti “lazzaroni” di Via Lazzaro Palazzi (ispirandosi alla mostra Chambre d’Amis del 1986, curata da Jan Hoet, a Ghent), si misurano per la prima volta con lo spazio pubblico e il modo in cui esso agisce direttamente sull’opera.
In quella occasione l’opera ha subito dei cambiamenti clandestini durante la notte, dimostrando come i momenti imprevedibili fanno parte del lavoro stesso, soprattutto se l’opera è aperta a una relazione pubblica.
Liliana Moro lavora con le cose “vere”, pregne di una filosofia, una riflessione politica, ma riconducibili poi al reale. Anche per questo il suono si presenta sì come uno strumento effimero, ma reale e reso concreto spesso nella voce stessa dell’artista, e nei rumori – non suoni sintetici – presi dalla vita vera. Al punto che anche le “quinte” del suo lavoro diventano oggetto di esposizione, come le immagini raccolte nel tempo da Moro e conservate poi nel libro Voci (2005), foto di origine mediatica raffiguranti persone in rappresentanza di un pensiero o una comunità, intente a parlare al megafono o al microfono, al PAC visibili sul ballatoio del primo piano.
Infine dalle casse acustiche dell’opera Andante con moto, emerge la voce dell’artista mentre legge l’opera di Samuel Beckett L’ultimo nastro di Krapp (1958), in parte reinterpretata con alcuni suoni raccolti da Moro, una pratica frequente nella sua ricerca. La buccia di banana e la banana gigante in cemento si presentano nello spazio come l’immagine emersa dalla proiezione della mente che rende le cose concrete durante la lettura. Con le parole dell’artista: «Beckett crea uno spazio scenico essenziale, in cui l’interazione tra oggetti e persone si realizza con pochissimi elementi. In Beckett la scenografia di fatto non esiste, eppure lui riesce a creare un rapporto incredibilmente condensato tra lo spazio e la figura».
La coerenza di Liliana Moro non risiede nell’individuazione di un metodo, una maniera, una riconoscibilità, ma in valori saldi che si innestano tra lei, le cose e il mondo stesso. In una intervista per il Centro Pecci di Prato, una giovane Moro agli inizi degli anni Novanta, dichiara il suo rapporto con gli oggetti, sostenendo come lei non sia inventrice di nulla ma si limiti ad una azione umana che risalta l’uso di quello che una cosa già è. Parla di Favilla (1991), e tra le mani ha lo stesso modellino qui presente nella già citata Spazi. In quest’opera usa otto cric, utili di solito per tenere pesi importanti, per sollevare invece della gommapiuma. Durante l’intervista Moro afferma qualcosa che può essere applicato fino ai suoi lavori più recenti: «Queste opere non sono falsamente leggere, possono essere leggere o pesanti, ma false non lo sono mai».
ANDANTE CON MOTO
Liliana Moro
A cura di Letizia Ragaglia e Diego Sileo
Fino a 19 settembre 2024
PAC – Padiglione di Arte Contemporanea