Prima dell’idea di amore e sessualità, relazione e intimità, ossessione e famiglia. Oltre i limiti di ciò che è accettabile socialmente e umanamente condivisibile. Prima e dopo, è l’essenza. È la dimensione oggettiva di ciò che è visibile a destabilizzare l’occhio di chi osserva, il significato che vi attribuisce lo spettatore è da attribuire ad un istante successivo. Per dirlo in una frase, alla determinazione giudicante dell’individuale si sostituisce l’oggettivazione di una forma desiderata. Si lascia “il posto all’Occhio e allo Spettatore”, per usare le parole di di Brian O’Doherty.
L’oggettivazione iniziale si rende necessaria nel caso in cui il soggetto apparente si fa pretesto per una rappresentazione artificiale dell’essere umano: ci troviamo davanti ad una selezione degna di un automa dalla presa chirurgica, che, anestetizzato, sembra selezionare soggetti, annientando ciò che per sua natura – artificiale, e quindi costitutivamente sociale – è pregiudizievole.
Ma l’attimo è passato. L’Occhio si sofferma, lo Spettatore interviene.
Ad uno sguardo più attento, seppur privo di giudizio, improvvisamente la costruzione dell’immagine disvela atmosfere perturbanti. Il processo di risveglio dei sensi avviene per gradi, ma la disposizione dell’immagine è precisa, non vuol tradire l’intelletto, può semmai scherzare soltanto. Gli indizi sono disposti armoniosamente – pensati, camuffati e seminati attraverso piccoli dettagli. D’un tratto la percezione s’assottiglia e qualcosa d’altro affiora dal setting così accuratamente impostato. È giunto il momento in cui un’addizione di particolari genera nuovi universi di riferimento.
Situazioni familiari, eppure paradossali. Una composizione di soggetti e oggetti, di umano e artificio, prodotti e sentimenti. Una mescolanza agghiacciante, spaventevole forse, eppure così visivamente consueta. È questo ciò che avviene davanti alle opere fotografiche di Jamie Diamond (Brooklyn, USA, 1983) ed Elena Dorfman (Boston, USA, 1965) che Fondazione Prada presenta in “Surrogati: un amore ideale”, mostra curata da Melissa Harris, visibile a Milano fino al 22 luglio 2019 all’Osservatorio in Galleria Vittorio Emanuele II.
È una delle prime fotografie che apre la mostra ad introdurre un simile immaginario. In Brenda’s Nursery (2014) di Diamond bambini-bambolotti di ogni etnia ed età occupano la scena; convivono con peluches stereotipati e bambole di pezza: cagnolini, pecorelle, nuvole, orsacchiotti, conigli e anche farfalle.
La scenografia sembra apparentemente essenziale: un fasciatoio bombato, una culla per neonati in bilico su una cassapanca, un lettino dall’equilibrio precario, ma s’intravede anche una carrozzina in stile retrò, per non parlare delle ceste di vimini e seggiolini d’ogni tipo. La luce che filtra dalle finestre è rarefatta, sembra quasi fittizia, quasi ci trovassimo in un set cinematografico, o ci troviamo forse in una scena teatrale, dove i bambolotti sono i teatranti e la moquette beige un palco?
La realtà rappresentata è posticcia, tutto è in posa come in un set premeditato. Le espressioni sono caricaturali, quasi grottesche. Gli sguardi, glaciali, non s’incontrano.
Eppure la visione ci appare familiare. Come in un trompe l’oeil, l’atmosfera è sospesa, l’artificio si fa mimesi mansueta. Tematiche d’amore familiare, scene di vita, mondi quotidiani.
“Ho iniziato a considerare la vita di donne e uomini che convivono con una sex doll anatomicamente perfetta. Volevo vedere con i miei occhi com’è fatto il legame amoroso tra essere umano e surrogato di silicone”, suggerisce la stessa Dorfman, commentando Still Lovers (2001-2004), la serie esposta in quest’occasione che indaga la quotidianità domestica di persone che convivono con bambole erotiche a grandezza naturale. Diamond, d’altro canto, introduce così le serie Forever Mothers (2012-2018) e Nine Months of Reborning (2014) – che ritraggono la vita di artiste autodidatte che realizzano o collezionano bambole iperrealistiche per soddisfare una mancata maternità: “Per molte di queste donne non è importante il sesso del bambino, a loro interessa solo avere un neonato (…) Abbiamo qualche obbligo nei confronti di questi surrogati?”.
Il percorso di mostra si sviluppa attraverso accostamenti visivi mai forzati, che lasciano ampio spazio alle artiste statunitensi e ai rispettivi corpus di opere, quasi ci trovassimo di fronte a due piccole personali a confronto.
In questo universo fatto di carne e silicone, l’osservatore è un viaggiatore super partes, uno Spettatore il cui Occhio si muove oltre il confine, ai margini di ciò che è convenzione.
Quando si attivano tali meccanismi e come si instaurano queste connessioni? Qual è il confine tra scandalo e naturalezza, inquietudine e commozione, consuetudine e possibilità? Attraverso quarantadue scatti, i soggetti delle fotografie di Diamond e Dorfman viaggiano in un mondo on the edge: papabili animazioni in potenza, sterilmente inanimate nell’atto.