Testo di Barbara Ruperti –
Lawrence Abu Hamdan (1985, Giordania), Turner Prize 2019, è il vincitore della terza edizione della Future Fields Commission in Time-Based Media, un’iniziativa congiunta di Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e del Philadelphia Museum of Art a sostegno della creazione di opere innovative nei campi di videoarte, cinema, performance, sound e arte digitale, che negli anni passati ha prodotto le opere delle artiste Rachel Rose e Martine Syms. Insieme all’installazione di Abu Hamdan anche una collettiva delle opere in collezione e le due personali dedicate alla pittura di Victor Man e alla ricerca scientifico-speculativa di Diana Policarpo.
Le mostre che hanno inaugurato nella sede di via Modane lo scorso 3 novembre raccontano tre storie di sospensione dell’esistenza. Esperienze che ci trasportano altrove, in dimensioni al confine tra realtà e illusione, storie di allucinazione, di sogno e delirio. Come le memorie distorte e incarnate nei corpi ritratti da Victor Man nella mostra Eyelids, Towards Evening.
Racconti di allucinazione e sospensione percettiva quelli ricostruiti nella video-installazione di Diana Policarpo Liquid Transfers, dedicata allo studio dei parassiti e al loro utilizzo nel corso della storia.
Infine, la vita sospesa di un popolo intero evocata nella video-installazione di Air Pressure (A diary of the sky), operadi Lawrence Abu Hamdan ospitata nell’ultima sala sul fondo della navata della Fondazione. Un’operazione che raccoglie e restituisce in molteplici prospettive le testimonianze di un popolo oppresso e soggiogato da un nemico che viene dal cielo.
In sala uno schermo inclinato inquadra una porzione di cielo. Lì in mezzo piccoli punti luminosi avanzano lentamente trascinando dietro di sé candide scia di vapore. Una sull’altra le leggere geometrie aeree si dissolvono nel tappeto azzurro. All’improvviso un boato ci scaraventa da quei dolci pendii celesti fino a terra, tra i palazzi e le strade di una città. Si sentono delle voci concitate, delle urla, e poi il silenzio. Possiamo immaginarci quegli sguardi mentre improvvisamente convergono nello stesso punto.
La ricerca di Abu Hamdan comincia il 4 agosto 2020, quando un’esplosione investe il porto di Beirut e lascia in macerie la città per un raggio di 20km. La deflagrazione venne catturata da centinaia di dispositivi e le registrazioni, condivise sui social, fecero il giro del mondo. È questo fatto che ha scatenato l’interesse di Lawrence Abu Hamdan che da anni mette a disposizione dell’arte la sua esperienza negli ambiti della musica autoprodotta e della perizia fonica forense per ricostruire e denunciare i crimini perpetrati a danno di individui e comunità che non hanno rappresentanza in contesti legali ufficiali. E per farlo parte proprio dal suono: attraverso l’ascolto e l’analisi delle registrazioni e grazie all’aiuto di software sofisticati riesce a rendere visibile l’invisibile.
L’indagine alla base di Air Pressure (A Diary of the sky) si concentra sullo spazio aereo libanese e sulla violenza acustica esercitata costantemente sulla popolazione del Paese. Il cielo del Libano è quotidianamente invaso dai voli militari di una potenza straniera, aerei e droni non autorizzati delle forze di difesa israeliane che esercitano una sorta di occupazione effimera del cielo. Una costante pressione dall’alto che causa frequenze sonore fisicamente e psicologicamente aggressive. I voli che attraversano quotidianamente il territorio libanese sono effettuati in violazione della Risoluzione ONU 1701 del 2006 che pose fine al conflitto militare tra Israele e Libano noto come la Guerra di Luglio. Ed è proprio grazie ai documenti depositati all’ONU che l’artista è riuscito a documentare e mappare l’intera traiettoria storica del fenomeno. Oltre 22.111 voli non autorizzati di jet, caccia, droni e altri velivoli senza pilota che negli ultimi 15 anni hanno dato vita a una protratta guerra sonora.
Attraverso l’analisi di questi dati Abu Hamdan ha prodotto una ricerca originale, che ha reso accessibile sul sito Airpressure.info, consultabile all’ingresso della mostra. Il sito è un database interattivo che include sia i documenti dell’ONU che le testimonianze raccolte attraverso una campagna di citizen journalism attivata dall’artista tramite i social media. La sceneggiatura si concentra nell’arco di un anno, da maggio 2020 a maggio 2021, e intreccia i dati di rilevazione dei voli a un resoconto cronologico dell’indagine stessa esposto dal “private ear” Abu Hamdan. Il cielo del libano nella video-installazione di Abu Hamdan assume la forma di un diario sul quale si condensano e si materializzano tutte le testimonianze condivise.
L’audio in sala alterna i fischi dei jet, i rombi dei caccia e i ronzii dei droni che sorvolano le città. Tra questi altri suoni più innocui eppure non meno spaventosi. Quelli delle grida, delle risate, delle finestre rotte, le cannonate dell’Iftar che segnano la fine del digiuno durante il Ramadan. Per il popolo del libano dietro ad ogni rumore improvviso si nasconde una minaccia incombente.
La violenza acustica continua non uccide ma intossica lentamente le sue vittime. L’artista la chiama “una bomba lunga”, che non arriva mai ma che con la sua minaccia estende la sua potenza distruttiva indefinitamente.
Improvvisamente il film tace.
Dopo una pausa, torna la voce di Abu Hamdan, che spiega che nel marzo 2021 i cieli libanesi erano tranquilli, stranamente privi di aerei militari, in quel momento impegnati a bombardare Gaza. Ma nemmeno il silenzio consente di staccare gli occhi da quel cielo, anzi, non fa che aumentare la pressione che viene dall’altro. Come dopo un’esplosione, il respiro si ferma in attesa del prossimo colpo.