Lo scorso novembre la galleria Mazzoleni ha inaugurato una grande mostra dedicata Agostino Bonalumi a dieci anni dalla sua scomparsa. La retrospettiva, “Agostino Bonalumi: il Teatro delle Forze”, è visitabile fino al 3 febbraio 2024 ed approfondisce il denso rapporto dell’artista con la macchina teatrale, non solo raccontando in modo esemplare la pratica dell’estroflessione, ma soprattutto documentando il suo apporto al mondo del teatro. Ne parliamo con il curatore, Marco Scotini.
Partiamo, come la logica insegna, dal titolo: Il Teatro delle Forze. In cosa consiste il rapporto di Bonalumi con il mondo del teatro? Chi è l’attore e chi è la maschera?
Nei due casi che abbiamo indagato in mostra – il balletto Partita con musiche di Petrassi e coreografie di Susanna Egri così come ROT con musiche di Guaccero e coreografie di Amodio – il rapporto di Bonalumi con il teatro risulta esteriorizzato. Occupa, voglio dire un luogo deputato: tanto che sia il Teatro Romano di Verona o il Teatro dell’Opera di Roma. Ma in tutta la mostra si fa riferimento anche ad altro: c’è sempre un teatro sottinteso, implicito, quello che rende plastico lo spazio di Bonalumi. Intendo dire che ogni opera di Bonalumi è la scena di un rapporto di tensione irriducibile tra azione e reazione, pressione e resistenza, estroflessione e introflessione. Lo spazio di Bonalumi è irrequieto e non riesce a sedarsi, a risolversi in un piano uniforme. Ora, per rispondere alla tua domanda, nel caso di questo teatro particolare, l’attore è lo spazio, mentre le maschere sono le differenti configurazioni di volta in volta determinate da questo rapporto tra forze attive e passive. Teatro è sempre e solo là dove c’è una cosa e il suo opposto, due entità (o due maschere) in conflitto. Il fatto che i due eventi teatrali si collochino nella fase di maturità dell’opera di Bonalumi, mi sembra sintomatico del valore che Partita e ROT rivestono all’interno della sua intera attività.
In effetti, la mostra si concentra su un periodo specifico nella parabola di Bonalumi, quello dalla fine degli anni Sessanta fino agli anni Settanta, tra l’altro particolarmente produttivo. Ma queste azioni coreografiche non risultano ad oggi particolarmente indagate, pur presentandosi come momenti di grande valore e contaminazione visiva tra le arti.
Questi due grandi spazi scenici sono anche un osservatorio privilegiato per valutare lo spostamento di Bonalumi dalla pittura-oggetto (come l’aveva definita Dorfles) alla pittura-ambiente come Blu abitabile, Ambiente bianco, Grande nero. Tutti ambienti praticabili che si definiscono in questo momento e che forse sono in grado di rivelare i meccanismi che hanno presieduto la concezione spaziale e multiplanare delle sue opere. Il fatto che Partita e ROT non siano stati analizzati adeguatamente finora è sintomatico della gerarchizzazione tra le arti che la modernità ha continuato a portare avanti, nonostante fosse alla ricerca continua delle contaminazioni. Forse è stato visto come un lavoro di scenografia mentre in gioco ci sono be altre componenti espressive.
In effetti, più volte citi l’opera di Bonalumi come “performativa”. In quale senso possiamo immaginare questo grado di performatività? In questo porsi dell’opera come una superficie elastica e di deformazione? Quindi come “luogo d’azione”?
Certo, potrebbe apparire inadeguato parlare di performatività nell’opera di Bonalumi. Credo però che sia fondamentale riconoscere alle sue opere questo carattere temporale, di evento, di luogo di accadimenti, in cui lo spazio continua ad essere una latenza sempre sul punto di trasformarsi o appena trasformato. Nel percorso di Bonalumi non si incontra mai una superficie perfettamente bidimensionale ma ogni sua opera, senza mai negare il telaio che la trattiene, aggetta dalla parete, deborda i limiti della tela. Il fatto che si tratti di monocromi ci consente di concentrarci in queste micro-drammaturgie dello spazio, dove uno stesso colore muta di intensità, accoglie ombre a lunghezza variabile grazie anche all’incidenza differente della luce sui piani in emersione.
In effetti tutto questo avviene, per citare Germano Celant, proprio grazie alla luce. E proprio la luce permette di giungere all’approccio ambientale, penso a Blu abitabile.
Infatti Celant scrive nel ’66 per la Galleria del Deposito: “La fluidificazione dei rilievi aumenta le illusioni di profondità. Il colore si proietta in avanti e impone la propria presenza. La luce dinamizza il gioco dei volumi, diventa un vero e proprio elemento costruttivo. Il quadro-oggetto si concretizza, l’ambiguità tela parete si dissolve. Il ‘modello’ plastico si coniuga all’infinito, è diventato un vettore spaziale che si muove verso e con lo spettatore”. Sembra, di fatto, un’anticipazione della descrizione dell’ambiente Blu abitabile, con il suo carattere ascensionale, che sarà realizzato l’anno dopo per la leggendaria mostra “Lo Spazio dell’Immagine” a Foligno.
La triplice scansione cromatica, nero-bianco-rosso, che contraddistingue i tre tempi di ROT come l’itinerario espositivo nella Galleria Mazzoleni, dispone quindi di una valenza storica, oltre che metaforica. L’intera produzione dell’artista si basa, principalmente, sull’esercizio di colori prevalentemente primari.
La successione temporale dei tre monocromi dovrebbe avere, per i suoi autori, un carattere alchemico-simbolico e uno storico-politico. Da un lato il passaggio nigredo, albedo, rubedo. Dall’altro, da una prima scena in cui domina il nero e dove c’è l’incontro primordiale dei corpi che faticano a staccarsi da terra si passa ad una fase che riconosce l’identità assieme alla sopraffazione, fino all’apparizione del rosso come unione dei corpi in collettività sociale. Bonalumi, vista la sua consolidata preferenza per i monocromi, ad apparire l’artista perfetto per questo tipo di intervento in cui si definiscono tre grandi ambienti sulla scia di Blu abitabile, che abbiamo riallestito per la mostra torinese.
Bonalumi indaga, nel pieno spirito del tempo, sul senso e forse sul superamento della rappresentazione. E risponde intervenendo sulla stessa superficie, o per meglio dire schermo che tradizionalmente è un supporto. Entro questa dinamica, non esiste un segno se non un segno spaziale. Prima di lui, Lucio Fontana ha aperto la strada e assieme a lui la percorrono anche Enrico Castellani e Turi Simeti, solo alcuni dei partecipanti della famosa mostra “Pittura oggettuale” dei già citati Celant e Dorfles. Come si relaziona con questi autori?
È difficile ricostruire qui una trama di relazioni complesse come è stata quella dell’arte italiana della fine degli anni ’50 e del superamento dell’Informale. È vero che Fontana ha rappresentato un punto di non ritorno ma, nel caso di Bonalumi, forse stranamente, ma i depositi di magliette sopra la tela prima e le estroflessioni poi non possono essere pensate senza Alberto Burri e i suoi “Gobbi” della fine degli anni ’40 e degli inizi degli anni ’50.
La retrospettiva nasce grazie alla collaborazione dell’Archivio Bonalumi di Milano, della Fondazione Giorgio Cini di Venezia e ai prestiti dell’Archivio Storico del Teatro dell’Opera di Roma e della Fondazione Egri per la Danza di Torino. Ma è anche parallela a The paradox of proximity, la mostra comparativa tra il maestro delle estroflessioni ed il coreano Lee Seung Jio nella sede di Londra.
Grazie sempre alla Galleria Mazzoleni abbiamo potuto aprire, lo scorso ottobre, nella sua sede di Londra un ulteriore omaggio a Bonalumi. In rapporto alla differenza spaziale tra le due sedi della galleria, a Londra abbiamo pensato ad una mostra più intima e raccolta. Una sorta di dialogo mai realmente esistito con uno dei padri dell’astrattismo sud coreano come Lee Seung Jio. D’altra parte, nonostante le differenze culturali e geopolitiche dei rispettivi contesti sociali, tra i due artisti è possibile percepire delle forti affinità metodologiche e formali, ma anche una serie di analogie in rapporto al contesto storico del dopoguerra in cui si trovano ad operare. Nonostante l’approccio di Lee Seung Jio è di natura illusionistico-visiva, mentre quello di Bonalumi è tattico e sensuale, sono molte le aspirazioni comuni e le premesse che i due grandi innovatori condividono. In questo caso per completare il dittico ci siamo avvalsi della collaborazione con la prestigiosa Kukje Gallery di Seoul.
Eventuali progetti futuri sugli anni ’70?
Ne posso solo anticipare uno. Una grande retrospettiva su Nanni Balestrini presso il CIMA di New York.