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Raccontare l’Africa significa raccontare un mondo che l’Occidente ha preteso di conoscere attraverso la frequentazione e lo sfruttamento durato secoli, partendo dalla prospettiva dell’egemonia bianca con la quale ha costruito lo stereotipo razzista dell’uomo nero. Oggi, in epoca post-coloniale e globalizzata, l’identità africana si afferma nella sua complessità in opposizione alle rappresentazioni che l’hanno definita in passato – e che tuttora sopravvivono ancora come retaggio – rivendicando la propria specificità, prescindendo dai miti imposti e rivalutando le proprie tradizioni alla luce delle ibridazioni derivanti dai movimenti migratori e dall’incontro/scontro tra culture tra resistenza e omologazione. Un mondo da scoprire che i trentatré artisti invitati rivelano come insieme di voci non omologabili, perché l’Africa non esiste, ma esistono tante Afriche, caratterizzate da storie e realtà geopolitiche non uniformi che producono pensieri originali dei quali questa mostra – curata da Adelina Von Fürstenberg e da Ginevra Bria per la parte performativa e video, ospitata fino all’11 settembre 2017 al PAC, Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano– offre una panoramica rappresentativa.
Gli artisti, che appartengono a diverse generazioni e provenienze – molti dei quali già noti a livello internazionale, alcuni di base in Europa e altri nel continente africano a sud del Sahara –, esprimono la loro alterità attraverso narrazioni e pratiche che, come tasselli di un puzzle, compongono un ritratto in divenire di queste società in veloce transizione, alla ricerca di nuove rappresentazioni simboliche.
Tra questi, Georges Adéagbo, che presenta una complessa installazione fatta di oggetti trovati, frammenti di una storia collettiva ancora in attesa di essere interpretata e Yinka Shonibare Mbe che si interroga sull’identità post-coloniale e sulla rappresentazione dell’altro attraverso il puntuale riferimento alla storia artistica occidentale sia nei noti tableaux-vivant sia in lavori come La Méduse, rilettura del celebre capolavoro di Géricaul. Il ritorno alle origini è un tratto comune a molti che si attualizza in modo critico, ad esempio, nelle maschere ricreate con materiali domestici e di scarto di Romuald Hazoumé o nei disegni naïf di Frédéric Bruly Bouabré. Numerose anche le opere di denuncia come la serie fotografica Genocide Site di Pieter Hugo che ha realizzato nel 2004 una mappatura dei resti del genocidio avvenuto nel 1994 in Rhuanda, abbandonati e dispersi nel territorio: un intenso memento mori diventato macabro elemento del paesaggio. L’impegno sociale è la caratteristica delle opere video realizzate da artiste esposte nella sala al primo piano, che descrivono la difficile condizione delle donne: dalle vicende di violenza e abuso raccontate dalle protagoniste dei videoritratti Personal Accounts di Gabrielle Goliath, alla vita delle lesbiche e transgender di Zanele Muholi o ancora la riflessione sulla costruzione del cliché primitivista della donna nera descritto nel video di Ato Malinda.
Interessanti per ampliare il panorama composito della scena artistica, la sezione dedicata al design che presenta delle sedute realizzate con materiali di riciclo: dall’estetica dettata dal bisogno e dalla scarsità nascono oggetti di grande forza come Weapon Throne Métal di Gonçalo Mabunda o Petit Fauteuil Tressé di Amadou Fatoumata realizzata con pneumatici usati, che diventano vere e proprie presenze totemiche.
I lavori in mostra denotano un’attitudine critica verso la comune idea di esotismo e di dipendenza culturale alla quale si contrappongono un insieme di espressioni, racconti e saperi che definiscono una pluralità culturale in divenire.