Testo di Clarissa Virgilio —
Adagiata sulle cime del monte Sulaiman-Too, seguendo il corso dei fiumi Amu Darya e Syr Darya, si dispiega la mostra A Seed Under Your Toungue dell’artista uzbeka Saodat Ismailova. La prima grande retrospettiva dell’artista giunge in Italia negli spazi di Pirelli HangarBicocca, con un titolo che preannuncia il concetto nascosto dietro a quasi ogni lavoro di Ismailova: l’importanza della conservazione della memoria.
Saodat Ismailova nasce come videomaker: nel 2022 partecipa alla 59. Biennale d’Arte di Venezia con l’installazione Chillahona – presente in mostra – che comprende un ricamo tradizionale uzbeko conosciuto come falak ed un film ambientato in uno dei cimiteri più antichi di Tashkent. Le influenze sul suo lavoro partono dall’infanzia, durante gli anni della perestrojka, un periodo in cui l’Uzbekistan subì ulteriori cambiamenti molti anni dopo quelli – ben più drastici – decisi da dall’Unione Sovietica nel 1924 con il piano di definizione dei confini dell’Asia Centrale. L’impatto dell’Urss sulla morfologia del territorio, ma soprattutto sulla cancellazione della cultura e tradizione uzbeka, è uno dei punti cruciali su cui vuole riflettere il lavoro di Ismailova. In mostra sono presentati sei film e sette tra lavori scultorei ed installazioni. A legare ogni opera, ad un primo livello, c’è la volontà di mantenere saldo il legame tra gli uomini ed il territorio dell’Asia Centrale. Lo dimostra l’allestimento, a cura di Roberta Tenconi: le sedute dalle quali lo spettatore può guardare i film ricreano le cinque vette del monte sacro Sulaiman-Too, mentre le installazioni poste lungo le pareti dello shed di Pirelli HangarBicocca richiamano lo scorrere dei due grandi fiumi Amu Darya e Syr Darya.
Non solo coinvolgenti immagini in movimento: le parole pronunciate nei film di Ismailova raccontano una storia di resistenza, di lotta e di profondo amore per le proprie radici. Nella prima parte della mostra lo spettatore, “sedendosi sulle cime” di Sulaiman-Too, può vedere ma soprattutto ascoltare Stains of Oxus, The Haunted e 18,000 Worlds.
Stains of Oxus (2016) è il lavoro con la datazione più vecchia presentato in mostra. Per contrasto, l’ultimo lavoro in fondo agli spazi dello shed – Arslanbob – è un progetto cinematografico iniziato dall’artista nel 2023 e non ancora portato a termine.
Con delle riprese che seguono il percorso delle acque dell’Amu Darya (Oxus in greco) dalle sorgenti del Pamir fino al Deserto di Aral, nella proiezione Stains of Oxus Ismailova racconta quattro sogni di alcuni abitanti di quei territori. Si ascolta così la leggenda del lago Soman, metamorfosi di una fanciulla che, promessa ad un uomo anziano, di notte fuggì trasformandosi in lago e facendo affogare coloro che cercavano di portarla indietro. «I suoni di questa leggenda vivono nei miei sogni.» Al loro risveglio, le persone affidano il racconto dei propri sogni al fiume. Il fiume diventa così il flusso continuo di una memoria collettiva, a cui affidare i propri ricordi affinché possano continuare a vivere.
«La tigre è mia antenata, viene per guidarmi/ Ricordo il rumore delle onde sulla riva/ E il mormorio del mare/ Ora questi suoni vivono solo nei miei sogni.»
Il sogno non rappresenta più soltanto la dimensione onirica, ma diventa lo spazio del ricordo, in cui sopravvive ciò che nel presente è andato perduto. Il riferimento è ai forti cambiamenti subiti dal territorio dell’Asia Centrale in seguito all’intervento dell’Unione Sovietica che, deviando il corso dei fiumi, causando un inaridimento del territorio lungo l’Amu Darya con un forte impatto sull’economia locale.
L’immagine della tigre è fondamentale: si tratta di una tigre del Turan – ora estinta -, un altro esempio della distruzione messa in atto dalla forza cancellatrice del potere sovietico. L’animale permane nella memoria collettiva come un simbolo sacro, figura di protezione e simulacro degli antenati. La menzione alla tigre che chiude il film Stain of Oxus lo lega a The Haunted (2017). Le parole di The Haunted risuonano come una poesia d’amore all’animale estinto.
«L’ultima volta che ci siamo visti/ Eravamo nella valle dell’Amu Darya/ (…) il fiume ti proteggeva, nascondendoti/ dal malocchio e dalle brutte intenzioni. (…) In cambio, avevi promesso al fiume di difendermi, / dal pericolo di un’esistenza cieca, / volevi proteggermi dalla perdita di sapere.»
L’antico patto tra la tigre ed il fiume si è spezzato: il corso di quello è stato deviato, la stirpe di questa estinta. L’intervento sovietico ha stravolto lo status quo. Ma il ricordo della tigre e di ciò che essa rappresenta (un popolo libero dalle vessazioni sovietiche) si conserva nella mente di chi ne ha avuto testimonianza, e viene trasmesso di generazione in generazione.
The Haunted è una lettera d’amore alla patria, una promessa di conservarne il ricordo non corrotto, di trasmettere la tradizione a chi verrà. Nel film tra le immagini di una tigre siberiana e quelle di un esemplare imbalsamato di tigre del Turan, sono presenti spezzoni di alcuni filmati di inizio 900 dell’Uzbekistan sotto l’impero zarista, filmati dal cineasta locale Khudaibergan Devianov.
Se il primo film è un viaggio nella dimensione onirica ed il secondo una promessa d’amore, 18,000 Worlds (2023) è un potente inno che celebra la vittoria della tradizione sui tentativi messi in atto per cancellarla. «Coloro che hanno cercato di cancellare/ ed eliminare, non sapevano/ che noi stavamo guardando/ con 18.000 occhi. Con 18.000 mani/ lo conserveremo.»
Nella seconda parte della stanza sono proiettati altri tre film.
2 Horizons (2022) è un intreccio di due storie: la leggenda uzbeka del mito di Qorqut, un mistico che per primo fu in grado di levitare, e quella di Yuri Gagarin, il primo cosmonauta. Immagini molto diverse e in contrasto per raccontare queste due storie: alle inquadrature della Baikonur Cosmodrone, base di lancio della prima missione spaziale, seguono le immagini di un bambino, che simboleggia il mito di Qorqut. Tradizione e storia sono fortemente legate, così come il passato e il presente in Chillahona (2022). Alcune scene tratte dal film Shock del regista uzbeko Elyor Ishmukhamedov in cui vengono messe in scena alcune delle famose sessioni di ipnosi collettiva trasmesse alla televisione durante il regime sovietico sono immagini che trasmettono un senso di oppressione, una massa di persone in stato alterato. Alla folla si contrappone l’autoisolamento di una donna all’interno di una chillahona, una cella sotterranea impiegata in antichità in Uzbekistan per praticare un periodo di intima meditazione.
In un momento in cui il popolo uzbeko – e la famiglia stessa dell’artista – rischiava di perdere la propria identità, l’unica salvezza è il ritorno alle radici. Si ascoltano nel film le parole di Ismailova, che parla dell’intervento di sua nonna per riportare la pace all’interno della sua famiglia. Ancora una volta, citando l’artista, la nonna con “la sua presenza silenziosa” offre protezione alla nipote.
Arslanbob è il progetto ancora in corso che chiude il percorso di visita. Anche in questo caso, le riprese alternano passato e presente, con le immagini dell’immenso bosco di noce Arslanbob ai piedi del monte Sulaiman-Too che si succedono alle antiche miniature contenute nel libro Meraviglie delle cose create e fatti miracolosi delle cose esistenti del filosofo del XIII secolo Zakariyya al-Qazwini. La foresta evoca sensazioni ambivalenti, tra la meraviglia e l’inquietudine. Anche la natura stessa del bosco è favorevole allo sviluppo di leggende, poiché il noce è l’albero che libera più anidride carbonica che ossigeno nell’aria, causando così una sensazione di stordimento. Anche la foresta di Arslanbob diventa così, come la chillahona o il deserto attorno alla base spaziale di lancio, un luogo dalle caratteristiche mistiche, un portale di passaggio tra una dimensione terrena ed una più spirituale. La tradizione uzbeka è una memoria che si conserva e protegge la popolazione che ha vissuto sotto il controllo sovietico. Questo stesso popolo è stato in grado di adattarsi e sopravvivere mantenendo intatta la tradizione che lo caratterizza, non perdendo il ricordo delle sponde del lago d’Aral o della fierezza della tigre del Turan. I lavori cinematografici di Saodat Ismailova offrono inoltre una lente sui luoghi dell’Uzbekistan, nonché sulle sue tradizioni ancestrali; territorio di cui, secondo le parole dell’artista stessa, l’Europa occidentale ha una visione tristemente limitata.
Il seme di dattero d’oro esposto nella sala che dà il titolo alla mostra riprende un’antica leggenda secondo cui il filosofo Arslanbob consegnò al discepolo Akhmad Yasawi un seme di dattero conservato per anni sotto la lingua. Questi lo piantò dando origine alla foresta di noce che porta ancora il nome del suo maestro. Questo oggetto rappresenta come da una parte la conservazione della memoria non renda necessariamente quest’ultima immutabile: dal dattero nasce una foresta di noci. Forse è necessario che si modifichi al bisogno, per mantenere il suo valore con il mutare delle generazioni. Il seme sotto la nostra lingua è un incoraggiamento alla parola ed all’ascolto: un ascolto del passato, e una spinta a trasmetterlo alle generazioni future. A non dimenticare le proprie origini.
«I miei discendenti ti conosceranno, / non sarà necessario che gli racconti di te / perché erediteranno la mia memoria. (…) Mi dispiace di non averti saputo proteggere / il nostro paradiso è stato rubato / il nostro giardino, bruciato.»