Fino al 2 aprile, la Galleria Alberta Pane di Venezia, ospita A Form of Delusion, la prima mostra personale di Christian Fogarolli, a cura di Pier Paolo Pancotto.
Segue l’intervista di Mauro Zanchi.
Mauro Zanchi: Dove hanno origine l’idea e il progetto confluiti nella mostra A Form of Delusion. Come hai tradotto in opera la patologia conosciuta come “Glass delusion” (Delirio di vetro o Illusione del vetro)?
Christian Fogarolli: Il progetto è inedito, come i lavori mostrati, ed è partito a fine 2020 inizio 2021 su un ragionamento personale sulla questione contemporanea della fragilità. Il collegamento con la sindrome della cosiddetta “Galss delusion” è un aggancio che ha permesso non solo di approfondire una tematica storica, ma i suoi risvolti stessi nel tempo presente. Il termine “Delusion” che in realtà interpretiamo erroneamente come “delusione” in ambito psicologico e psichiatrico è inteso come una manifestazione di una falsa credenza, un delirio, una illusione. L’esposizione può essere letta attraverso diversi livelli e direzioni ed è stata immaginata come una sola opera nella quale esistono delle parti che la compongono e comunicano tra esse.
MZ: In seconda battuta come hai costruito le relazioni di senso e i collegamenti tra installazioni ambientali, sculture e fotografie presenti nella mostra ora in corso a Venezia?
CF: All’interno della mostra si è cercato di creare un dialogo tra le opere in rapporto allo spazio che le ospita. I lavori hanno una natura ibrida, mescolano linguaggi diversi diventando espressioni multiformi tra fotografia, scultura, installazione. Attraverso questo percorso si tenta di stimolare nello spettatore una riflessione su un tempo contraddistinto dall’incertezza e che porta le persone a sentirsi spesso vuote e inconsistenti. A lato della dimensione psicologica e fisica credo emerga nel progetto l’aspetto della cura, del rimedio e che solleva temi come il rapporto esistente tra gli individui e le sostanze, siano esse liquide o composti chimici.
MZ: Chi era o è affetto da questo disturbo – e quindi pensa che le sue ossa si possano scheggiare e andare in frantumi – crede anche di mimetizzarsi grazie alla sua presunta trasparenza di vetro?
CF: Domanda curiosa la tua, andando a rileggere alcune delle fonti che ho ricercato in questi mesi ritrovo un pensiero espresso da un paziente in un ospedale olandese degli anni ’30 e che vorrei citare qui: “Ah! You’ve missed the glass in the window. You didn’t see it. But it is there. That’s me. I’m there, and I’m not there. Like the glass in the window”.
MZ: Cosa ti ha colpito di più di questa particolare sindrome? Come ti sei immaginato la paura di chi ne soffriva (mi riferisco anche alle possibili immagini che i malati si figuravano pensando di essere persone di vetro)? A me ha impressionato il racconto di Pëtr Il’ič Čajkovskij. Il compositore russo temeva che la propria testa si sarebbe potuta frantumare mentre dirigeva l’orchestra.
CF: Una delle cose che maggiormente mi ha colpito è come alcuni studi recenti attribuiscano a questa sindrome un costante collegamento con i materiali in auge all’epoca di riferimento. Il vetro cristallino è stato scoperto verso la metà del ‘400 a Murano ed ebbe poi un’esplosione nelle corti europee e questo fenomeno coincide anche con l’evidenza della sindrome. Vi sono testimonianze nel II secolo d.C. di individui convinti di essere di ceramica (fonte Rufo di Efeso), e nel ‘900 invece di persone che si sentivano composte di cemento, il simbolo di quel secolo. Questa percezione è oggi riscontrabile nella società altamente tecnologica e informatica in cui si sta già parlando per esempio di sistemi di software da installare sottopelle. La situazione di Čajkovskij non è mai stata chiarita del tutto, una dimensione di paura e fragilità lo colpiva probabilmente durante la conduzione dell’orchestra e sembra che fosse convinto di perdere a terra la testa se non sorretta dal mento.
Altro punto che per lo sviluppo del progetto è stato per me fondamentale è la quantità e la varietà di fonti storiche e recenti in relazione a questo delirio. Vi sono fonti iconografiche con splendide miniature, fonti letterarie, poetiche, scientifiche, alchemiche, mediche. Alcune di queste ho deciso di trascriverle a matita su una parete bianca all’ingresso dello spazio espositivo con autori come Boccaccio, Miguel de Cervantes, Enea Silvio Piccolomini (Papa Pio II), Robert Burton, Constantijn Huygens, Benvenuto Cellini, Lo psicoanalista Adam Phillips e altri ancora…
MZ: Questa dissociazione tra realtà e immaginazione ha come punto cruciale della malattia l’ossessione che la materia si possa disintegrare. Per te che sei un artista visuale – e devi quindi evocare qualcosa di queste suggestioni drammatiche attraverso il veicolo del medium fotografico o scultoreo o segnico – cosa ha rappresentato lavorare con l’idea di una materia vulnerabile e sul punto di infrangersi?
CF: I materiali utilizzati per la costruzione della mostra A Form of Delusion sono di diversa natura e interagiscono tra loro. La materia vitrea, attraverso diverse lavorazioni, può assumere diverse consistenze e qui sono mostrate dal borosilicato in soffiato, alla fusione a pieno e in calco. Altro materiale caratteristico di alcune opere è il piombo in fogli; questo, pur essendo un metallo pesante, ci dona in realtà un senso estremo di debolezza e inconsistenza. In diversi casi la materia fragile e quella resistente sono spesso messe in relazione e a contatto. Questo affiancamento mi ha fatto pensare alle aste in metallo che Carlo VI si fece introdurre nelle vesti nobiliari per impedire al proprio corpo di infrangersi come un bicchiere di cristallo.
MZ: Quali sono i sottotemi evocati dai titoli di alcune opere come Purplish, Blue Monday, Emerald, Sanguine, Aquamarine e Roulette, Not Toxic, e a cosa rimandano?
CF: I primi rappresentano una serie di bassorilievi i cui soggetti derivano da ricerche archivistiche su reperti di diverse epoche e che si trovano in depositi di musei occidentali. Il mio interesse si è focalizzato sull’inquadratura, il cosiddetto “quarto scatto archivistico”, ossia quel frame di documentazione che riprende il retro del soggetto. Sono affascinato da come siamo condizionati nell’osservare un manufatto, artistico o di uso quotidiano, sempre da una prospettiva frontale, quasi rassicurante. Credo personalmente che in molti casi ciò che è celato sia estremamente più interessante; sotto altri punti di vista il soggetto viene totalmente depersonalizzato, sembra assumere forme astratte e inconsuete sprigionando forze estetiche e formali inaspettate. In questo caso vi chiaramente anche un riferimento al concetto di identità e al paradosso di vedere un soggetto solamente da dietro, come delle fototessere che svelano l’altro lato, dove la materia, manualmente squarciata, mostra frammenti di vetro che sporgono dalla superficie. I titoli si riferiscono al tono cromatico dell’opera o in alcuni casi ad aspetti psicologici in rapporto ad essa, come nel caso di Blue Monday, il terzo lunedì del mese di gennaio ritenuto dalla pseudoscienza il giorno più triste dell’anno.
Roulette e Not Toxic fanno riferimento più all’aspetto della cura. La prima è una installazione dinamica che fa muovere nove piatti che sostengono delle sculture in vetro contenenti dei farmaci i quali per gravità cadono al loro interno provocando un tintinnio continuo. Il titolo fa riferimento al gioco della roulette e di come spesso nella nostra società si assumono farmaci e sostanze con la leggerezza di un gioco o di una puntata, assumendosene ovviamente anche il rischio. La seconda è una scultura a pieno di vetro di Murano che sporge da una delle pareti in un punto alto dello spazio, è un modello cerebrale in due colori, nero e trasparente. Attorno alla forma scultorea ruota un canale in plastica con un liquido azzurro nella parte superiore della testa vi è conficcato uno stelo sempre in vetro che affonda nella materia.
MZ: In continuità con alcune opere precedenti a questa mostra, come hai costruito le immagini legate alle risonanze magnetiche che hai fatto nel momento dell’isolamento forzato durante il periodo del COVID?
CF: Le opere fotografiche My Brain in Lockdown 1/2 sono state realizzate appunto in seguito a una risonanza magnetica (MRI) realizzata sul mio corpo durante il lockdown presso il CIMeC Center for Mind/Brain dell’Università di Trento/Rovereto. Rappresentano una elaborazione trattografica del mio cervello e dei fasci anatomici che lo compongono in una visione frontale, sull’immagine fotografica si interpone poi una piccola scultura in vetro soffiato che contiene un farmaco ed è sorretta da una barra d’acciaio che trafigge la cornice in legno.
MZ: Ci parleresti più nel dettaglio della grande installazione Evidence US7?
CF: L’opera si ispira al testo dello scienziato e alchimista tedesco Johann Becher Physica Subterranea del 1669 il quale era convito di poter trasformare i corpi senza vita in magnifiche sculture in vetro per dare la possibilità alle persone di non doversi mai staccare dalla presenza dei propri cari. Becher pensava che i suoi studi potessero essere di grande valore per la società, pur non sapendo che la sua era pura utopia. Aveva ragione però in merito alla sua convinzione che il silicio (elemento utilizzato per realizzare il vetro) si trovi nel corpo umano, anche se in quantità minuscole e insignificanti. Partendo da questa lettura è iniziata una lenta costruzione di un corpo in frammenti, composto da parti in vetro soffiato, trasparente, con liquidi che scorrono al suo interno. È deposto in una cassa in legno a terra, come se fosse stato rinvenuto da un luogo non identificato.
MZ: Come mai Pier Paolo Pancotto (il curatore della mostra) considera la Glass delusion un’allegoria del tempo attuale? Quali analogie avete individuato nel rapporto tra memoria storica e ciò che accade ora per affrontare le problematiche del presente?
CF: Penso che in alcuni casi sia affascinante e importante riflettere sul tempo presente partendo dalla ricerca storica per comprendere come alcune dinamiche del nostro passato, più o meno recente, siano caratterizzate da una incredibile contemporaneità o possano aiutare a riflettere su questa. I recenti accadimenti hanno reso la percezione di mente e corpo maggiormente fragile, a tal proposito vorrei citare un pezzo comparso nel 2015 su Paris Review e scritto dallo psicologo Adam Phillips, considerando che è datato prima della pandemia direi emblematico: “L’illusione del vetro ha una potente risonanza contemporanea in una società in cui le ansie per la fragilità, la trasparenza e lo spazio personale sono pertinenti all’esperienza di molte persone e alle ansie relative alla vita nel mondo moderno”.