Fino al 15 luglio sarà possibile visitare A come Accademia, esposizione personale di Giulio Paolini a cura di Antonella Soldaini, presso la storica sede dell’Accademia Nazionale di San Luca a Roma.
La mostra, come ci illustra l’attuale presidente accademico Marco Tirelli, che ne ha co-ideato il progetto, si inserisce all’interno di una vasta riflessione sulle problematiche delle istituzioni dell’arte emerse all’incirca nella seconda metà dell’Ottocento e la cui eredità si riassume oggi nella parola “accademismo”.
In quel periodo le accademie si erano infatti arroccate su una normatività retorica e reazionaria producendo un’arte formale, di certo gradita al potere – l’art pompier, per inciso –, ma che divaricava sistematicamente da ciò che negli stessi anni stava fecondamente mutando in campo artistico.
Su questa linea di indagine, il programma di Tirelli promuove “un’idea di accademia basata su valori non reazionariamente normativi o di mercato, ma sicuramente rigorosi verso una produzione artistica orientata su criteri di qualità, poeticità e contenuto”. Nessun artista più di Giulio Paolini avrebbe saputo interpretare al meglio queste tematiche.
A tal proposito, la curatrice Antonella Soldaini sottolinea dunque come, durante il clima irruento ed effervescente degli anni Sessanta, l’accademia fosse stata percepita e criticata come luogo di chiusura alle ricerche artistiche contemporanee; una posizione che l’autore non aveva mai condiviso.
Anni nodali per Giulio Paolini, che precisava la sua ricerca sugli assunti di una radicalità concettuale mantenendosi però indipendente sia rispetto alla scena militante del ‘68 sia dall’approccio vitalistico e “guerrigliero” della stagione poverista cui partecipava.
Coerentemente con questa presa di posizione e mediante una densa riflessione concertata in sei nuovi lavori, l’esposizione si relaziona direttamente all’istituzione dell’Accademia Nazionale di San Luca come ambiente emblematico e rappresentativo. Un’accademia definitiva, da voce del dizionario, con la A maiuscola come indica il titolo, interrogata sul suo ruolo e sulla validità della sua “regola” nella contemporaneità.
Sulla facciata di Palazzo Carpegna il primo dei lavori che accoglie il pubblico è una bandiera. In essa, l’effige classica di una musa, mitologica protettrice delle arti e dell’ispirazione artistica, è colta nell’atto di lanciare nel cielo cornici dorate quasi ad affermare visivamente che, proprio da quel luogo, oggi come anticamente, l’arte può proiettarsi verso un infinito; forse un altrove dechirichianamente metafisico…
Eppure l’ambiguità dislocativa che si riscontra nel titolo di questa installazione – Al di là (2022), aldifuori dell’accademia stessa? oppure al suo interno? verrebbe da chiedersi – rivela, proprio in questo spiccato carattere enigmatico, tipicamente paoliniano, il suo senso: la domanda ineludibile eppure mai risposta su “quale sia, sia stata o sarà, la ‘regola’, sempre taciuta e tuttora attuale, per concepire o osservare un’opera d’arte”, come l’autore enuncia in catalogo.
Una questione aperta e reiterata nei site-specific in mostra dove cavalletti, basamenti, cornici, erme, statue, colonne e squadrature prospettiche – chiari simboli della classicità accademica e da sempre contesto di riferimento dell’estetica dell’autore – possono esser dati solo per frammento.
Ma cosa rappresenta l’Accademia per Giulio Paolini?
È l’artista stesso a risponderci: “Ho cercato di parlare attraverso le mie opere per raccontare i tratti distintivi dell’accademia che sono per tradizione delle regole poi destinate ad essere superate da altre in un avvicendamento regolare nel tempo che modifica, quando non addirittura rovescia, i canoni enunciati in precedenza. Questo litigio, un dissidio tra i principi enunciati dall’accademia che il tempo produce, è una contraddizione. Io cerco di capire quali possano essere le costanti interiori all’opera stessa, ma è una ricerca vana e paradossale. Al contempo cerco di dare evidenza a ciò che rappresenta il sottinteso dell’opera o forse a ciò che essa nasconde ma che, proprio per questo motivo, costituisce la sua propria vera sostanza. In altre parole provo a rappresentare ciò che, nonostante cambi costantemente per assetto ed aspetto, mantenga al contempo sempre la medesima anima, la medesima verità”.
Dato che le norme accademiche rappresentano quindi, simultaneamente, dei canoni assoluti e dei paradigmi destinati al mutamento, per Paolini “il dilemma è seguire una regola, avere un metodo” la cui unica soluzione consiste nell’individuare le condizioni di esistenza che rappresentano la base concettuale, prima che formale, dell’opera.
Operare cioè in riduzione, verso l’essenzialità (o verso l’essenza dell’arte) come fece nella sua “prima opera autentica” – Disegno Geometrico del 1960 – “paradigma concettuale e punto di eterno ritorno della sua intera ricerca artistica”, come esemplarmente la definì Maddalena Disch.
Tale riferimento ci appare nodale anche nell’ultima opera di questo iter – Vojager (V) – che incontriamo nella Sala Centrale dell’Accademia Nazionale di San Luca. Guardando infatti alla particolare struttura alla quale è appeso il lavoro, notiamo come l’incrocio delle due reti metalliche che fungono da impalcatura, disegnino di fatto una squadratura geometrica della porzione di soffitto su cui l’installazione è fissata, come se questo fosse un foglio, o una tela.
Dal centro esatto di essa, dalla pulizia formale e concettuale di quell’ordine geometrico, appesi alla precarietà di un cavo, tracollano verso il basso un tecnigrafo-portatile e una serie di riproduzioni fotografiche della sala stessa inscenando un collasso sparpagliato e scoeso di frammenti di un’unità presente come un’ombra, eppure mai più raggiungibile.
Il medesimo tema, seppure declinato con qualche variazione, lo avevamo incontrato anche in Accademia (I), in mostra al pianterreno di Palazzo Carpegna. Ed erano i lacerti dell’immagine riprodotta del Sisifo tizianesco a rovinare dall’alto in caduta libera; tra un cavalletto, alcune piccole colonne in gesso e fogli di plexliglass.
Un concetto che, nella poetica dell’artista, rimanda in prima istanza all’opera La caduta di Icaro del 1981 dove “a cadere, non era tanto una figura riconoscibile, ma i vari elementi che componevano l’opera. Una caduta generale, dall’alto verso il basso… qualcosa che non so spiegare, che accade inavvertitamente e che, in un certo senso, è un destino universale di tutto ciò che noi crediamo di conoscere”.
Il tòpos della “caduta”, che Paolini descrive come “la giusta fine di tutto ciò che presuppone di essere e di restare”, vuole dunque che la figura dell’autore si identifichi nel mito classico di Sisifo-Icaro, ma solo come frammento. Egli stesso è infatti una dis-unità, destinato com’è a ricercare invano il coefficiente di coesione di un iperuranio di “regole esatte”, a cui guarda e da cui precipita, per ricominciare poi da capo, ancora e ancora.
Questa l’Idea di accademia secondo Giulio Paolini, con la “I” maiuscola stavolta.