Nell’immaginario delle società europee la pelle nera e la razza sono sempre stati una cosa sola. E il crepuscolo dell’Europa si manifesta proprio mentre l’europeo non sa più che fare di questo esubero, che preme ai confini, che entra nelle università e che pretende il riconoscimento della propria esistenza negli stessi modi e forme in cui è garantita a chi nasce con la pelle bianca.
William Kentridge è cresciuto in Sudafrica durante il regime dell’Apartheid, un conflitto che ha messo in forma la sua opera. Di essa sono esposti Shadow Procession (1999) e Breathe (2008) in una Chiesa intitolata a San Domenico, ad Alba (mostra presentata dal Castello di Rivoli e dalla Fondazione CRC). Questi lavori non sono opere nuove e il lettore avrà molto probabilmente avuto modo di vedere le stesse in altre occasioni. Non è nemmeno la prima volta che in Italia viene organizzata una mostra d’arte contemporanea all’interno di una chiesa. Ma l’acutezza dell’autore e la profondità della sua ricerca spingono in questo caso a mettere in discussione la presunta neutralità del contesto. L’architettura in cui sono installate le due opere, infatti, è una chiesa intitolata a S. Domenico, il fondatore dell’ordine dei domenicani, i quali hanno avuto un ruolo di prim’ordine nell’Inquisizione, con tutte le conseguenze che questo movimento di terrore in Europa ha avuto sull’inferiorizzazione della donna e dell’altro, e soprattutto sulla vittoria della proprietà privata rispetto al bene comune.
L’opera di Kentridge installata in una chiesa risveglia fantasmi: ci ricorda il battesimo degli schiavi nel Rinascimento fiorentino, l’attribuzione di un nome e di un’anima cristiana agli stessi. Ci ricorda il primo decreto sulla schiavitù elaborato nella penisola italiana, a Firenze nel 1366, scritto per mano dell’allora Priore di Firenze. Ci ricorda le leggi promulgate dalla Chiesa in favore della compravendita di schiavi in Europa, nel vecchio continente che “scoprendo” il resto del mondo decideva le sue gerarchie, inclusa quella di chi avrebbe potuto essere umano e chi no, un preumano o subumano che ancora oggi cammina nella processione di Kentridge e non ha accesso a determinati contesti.
Come ha scritto Achille Mbembe in Critique de la raison nègre: “Il Negro non esiste in quanto tale. È continuamente prodotto. Produrre il Negro significa produrre il legame sociale di sudditanza e un corpo di sfruttamento”.
Il timore che ho provato attraversando la soglia della chiesa d’Alba è che se in seicento anni ci siamo dimenticati il particolare ruolo della Chiesa nel determinare un sottosviluppo dell’Africa e un’inferiorizzazione di coloro la cui vita ha avuto origine nel continente al punto da installare un lavoro decoloniale e antirazziale nel perimetro di una chiesa è che tra seicento anni forse ci saremo dimenticati anche dell’Apartheid. In fondo la cultura del gusto, del buon gusto, è sempre andata a braccetto con la schiavitù: tra le ombre che camminano nella Shadow Procession di Kentridge vi è quella di un minatore, una figura sul cui lavoro e vita si fondano grandi capitali, come quello del magnate delle miniere fondatore della Johannesburg Art Gallery (Gabi Ngcobo, I’m Not Who You Think I’m Not).
Sono sicura che Kentridge non avesse pianificato nulla di tutto questo, però il suo lavoro installato in un perimetro domenicano ha la capacità di mettere in luce queste contraddizioni. Forse l’opera di altri autori (Pinot Gallizio, Mario Merz…) allestite nel medesimo spazio non avrebbero fatto emergere così chiaramente questo tipo di conflitto, mentre l’opera di Kentridge, la sua arte politica, enfatizza la distanza che c’è tra gli ultimi nella processione e tutto quello che l’ordine dei domenicani ha determinato nella storia occidentale. Incluso chi abbia voglia o meno di entrare in un perimetro cristiano per vedere una mostra.
William Kentridge, Respirare
A cura di Carolyn Christov-Bakargiev coadiuvata da Giulia Colletti, Assistente Curatore Sede: Chiesa di San Domenico – Via Teobaldo Calissano, Alba (CN)
21 settembre – 8 dicembre 2020